Benedetto XVI, alle 17.00 del 28 febbraio 2013, dopo 7 anni, 10 mesi e 9 giorni, ha lasciato il Vaticano in elicottero per trasferirsi a Castel Gandolfo, dove vivrà nei prossimi due mesi in attesa che venga sistemato l’ex monastero di clausura nei Giardini Vaticani. Alle 18,15 si è affacciato sulla piazza antistante per l’ultimo saluto ai fedeli ancora nella sua veste di “Romano Pontefice” in carica, preparandosi a comporre l’ultimo tassello della maglia aperta l’undici febbraio u.s., giorno della Signora di Lourdes e dei Patti Lateranensi, quando un fulmine a ciel sereno, accompagnato da tristezza, incredulità, stupore, smarrimento, ha commentato, in silenzio, la decisione del Pontefice di scendere dal trono papale. Alle 20.00 dello stesso giorno, l’uscita di scena definitiva di Joseph Ratzinger, deciso a rispettare il proprio testamento spirituale, in cui precisa di voler affrontare, “ nella serenità della preghiera, l’eterna lotta tra Dio, da un lato, e il diavolo, dall’altro, che, negli ultimi tempi, è apparso presente e minaccioso tra le mura vaticane”, specialmente a seguito di vari scandali e, in particolare, quelli relativi ai preti pedofili, alla IOR e al maggiordomo personale, fatti scabrosi dai quali emerge una grande frattura fra i maggiori membri del clero.
I rituali della decisione epocale, con la chiusura del portone del palazzo di Castel Gandolfo, la sostituzione della Gendarmeria Pontificia alle guardie svizzere, la consegna dell’anello del pescatore rigato con un martelletto d’argento, pronto per essere rifuso e riutilizzato per il Pontefice successivo, l’eliminazione dello scudo rosso cappato di or dallo stemma, in cui sono rimaste le simboliche chiavi, “la bianca e la gialla, ”(Dante, Pg. IX, v. 119), la potestas solvendi peccata, “la più cara” (Dante, Pg. IX, v. 124), e la scientia discernendi, che “vuol troppa d’arte e d’ingegno avanti che diserri” (Dante, Pg. IX, v. 124-125), la consegna della mantellina non più indossata sulla tunica bianca, lo scambio delle scarpe rosse del sarto novarese Adriano Stefanelli, segno del martirio per la Chiesa, con i mocassini di cuoio, regalatigli dagli artigiani messicani di Leòn durante il suo viaggio pastorale in Messico, i sigilli rossi nel Suo appartamento, hanno fatto partire ufficialmente l’iter per l’elezione del nuovo discendente di San Pietro e, da quel momento, Benedetto XVI ha tenuto per sé il semplice titolo di “Papa emerito”.
Resteranno di lui le tante frasi memorabili e i gesti straordinari che ne fanno una figura altamente statuaria; si ricorderanno le perplessità di un Papa che, mentre la fumata bianca invadeva il cielo di Roma alle 17:50 del 19 aprile 2005, ha dichiarato di non avere “il vigore del corpo e dell’animo necessari” per il ruolo che gli era stato assegnato, si esalterà l’umile devozione con cui Egli ha promesso “obbedienza e riverenza incondizionate” al futuro Pontefice, si citeranno le Sue parole di ringraziamento ai cardinali, che, con la loro vicinanza e i preziosi suggerimenti, “sono stati di grande aiuto nel Suo ministero”, sarà di monito l’augurio che “il collegio dei Cardinali sia come un’orchestra in cui le diversità possano portare a una concorde armonia”, sarà sempre verde la garanzia che il papa dimissionario “continuerà a seguire con la preghiera la vita della Chiesa” …“Grazie Benedetto, siamo tutti con te” … e, ancora, “La tua umiltà ti ha reso più grande” … Di fronte a questi slogan, entrano in crisi le 1000 verità che hanno accompagnato gli studenti sin dai primi anni in cui si sono accostati alla Divina Commedia e nasce spontaneo il confronto tra il 265º Papa della Chiesa cattolica, “abbracciato dalla simpatia di quanti sono andati a salutarlo”, e la disperata solitudine di Celestino V, avvolto, per l’eternità, “dall’aura sanza tempo tinta” (Dante, Inf. III, v. 29) … La storia si ripete accomunando due uomini che hanno fatto emergere la naturale fragilità con una scelta insolita ma storicamente avallata.
Al momento della “dannosa novità” (Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, 2011, in wikipedia.org) di Pietro del Morrone, avevano abdicato San Clemente I nel 97, San Ponziano nel 235, San Silverio nel 537, Benedetto IX e Gregorio VI tra il 1045 e il 1048. A partire dal XII secolo, a fronte dei casi registrati, il diritto e la teologia avevano cominciato a interrogarsi sulla natura di tali “atti straordinari”, cercando di distinguere le eventuali cause legittime da quelle inammissibili e ponendo il problema di un eventuale superiore gerarchico nelle cui mani il papa in carica potesse rassegnare le proprie dimissioni, ma la materia non era stata legalmente disciplinata fino al 1294, anno dalle dimissioni di Celestino V, le prime assolutamente volontarie nella storia. Si era stabilito che “l’evento eccezionale”, “purché non nuocesse alla Chiesa” (Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, 2011, in wikipedia.org), era coerente con l’azione pastorale propria del ministero petrino e poteva essere tollerabile “per il desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa, per impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia” (www.operacelestiniana.org, 2003, in wikipedia.org), o “per inculta loquela, mens non experta e defectus scientiae” (Valerio Gigliotti, Fit monachus, qui papa fuit: la rinuncia di Celestino V tra diritto e letteratura, 2008, in wikipedia.org), o per “delitto commesso, scandalo dato, irregolarità dell’elezione” (Claudio Rendina, Ibidem). Bonifacio VIII, con la “Quoniam aliqui” del 1298, poi, ha eliminato ogni condizione ostativa e ha decretato l’illimitata autonomia del pontefice in carica a esercitare la propria volontà con un gesto supremo di abnegazione di sé per il bene della Comunità dei credenti; la norma è stata definitivamente recepita nel 1917 dal Codex Iuris Canonici, che garantisce l’assoluta libertà di rinunzia alla tiara pontificia senza alcun consenso da parte di alcun collegio cardinalizio.
SE, però, la storiografia, sin dagli albori della Chiesa, ricorda almeno altri cinque Pontefici, tutti protagonisti di clamorose abdicazioni, tutti venerati e rispettati, persino Benedetto IX, “un diavolo venuto dall’Inferno travestito da prete sguazzante nell’immoralità” (San Pier Damiani, Liber Gomorrhianus, 1049 ) …
SE, già, la tradizione canonistica classica riconosce che “un Papa, non più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, per il bene della Chiesa, ha il diritto e, in talune circostanze, anche il dovere, di dimettersi” (Peter Seewald, Luce del mondo, novembre 2010) …
SE la viva commozione di tutto il mondo, con servizi mediatici interessantissimi, ha fatto sentire meno smarrito Joseph Ratzinger mentre si avviava all’ultimo tratto di strada per il definitivo ingresso al Convento benedettino …
SE la grande folla, seppur amareggiata da “un senso di vuoto a cui non era assolutamente preparata”, ha manifestato a Benedetto XVI la propria riconoscenza e lo ha scortato con gratitudine, benevolenza e comprensione …
SE si è colta, nell’animo dei fedeli di tutta la Cristianità, la spontanea condivisione “per la scelta coraggiosa e responsabile” del Papa bavarese, generata da varie motivazioni ma, soprattutto, dalla “ingravescente aetate” che non Gli ha consentito “di adempiere al suo dovere” fino in fondo” …
SE è stato giudicato “profetico, umile, rivoluzionario” (www.gazzettadiparma.it, 18/02/2013) il gesto di chi, pur edotto della gravità di questa delibera a lungo meditata e, di certo, molto sofferta, l’undici febbraio u.s. ha comunicato che sarebbe sceso dalla barca di San Pietro … perché tanta secolare veemenza contro Celestino V, avvolto, per l’eternità, da “quell’aura sanza tempo tinta” (Dante, Inf. III, v. 29), tra “color che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Dante, Inf. III, vv. 35-36)? Perché la sua figura ascetica, mistica e religiosissima, di cui tutti parlavano con molto rispetto è, per antonomasia, il caso più eclatante di Papa dimissionario? E’ cosi incisiva la punizione di Dante che, con indelebile marchio, lo ha relegato nell’Inferno con la “setta d’i cattivi, a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (Dante, Inf. III, vvc. 662-63)? L’exul immeritus lo ha condannato perché, eletto Papa a ottantacinque anni, in un’epoca soggetta a rapidi mutamenti e agitata da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, avrebbe potuto rinnovare le basi della Chiesa anziché fuggire dall’Altissimo ministero di Pietro; la sua abdicazione, per di più, ha agevolato l’ascesa al soglio pontificio del Cardinale Benedetto Caetani che, pare, abbia esercitato indebite pressioni sull’umile eremita …
Il 192esimo successore di Pietro non sarebbe mai salito, sua sponte, sulla sella della Chiesa dopo Niccolò IV morto il 4 aprile 1292; l’inaspettata elezione lo ha colto di sorpresa ed è rimasto sbigottito quando tre vescovi sono saliti fino al suo rifugio sulla Maiella per comunicargli la decisione del cardinale Latino Malabranca Orsini, allora vescovo di Ostia, che lo avrebbe proposto con forza a quel lunghissimo conclave durato ben 27 mesi, dall’aprile 1292 al 5 luglio 1294, interrotto persino da una tragica epidemia di peste … Perché proprio lui? Perché le trame politiche fomentate anche dal Re di Napoli, Carlo d’Angiò, che aveva bisogno dell’esistenza di un Papa per averne l’avvallo su certe operazioni bellico-politiche in Sicilia, stavano obbligando un non porporato così poco abile nelle questioni politiche e senza alcuna esperienza degli intrighi dell’epoca? Per essere facilmente strumentalizzato? Celestino, in un primo momento, ha rifiutato l’incarico, poi, per dovere d’obbedienza, il 29 agosto è stato incoronato a L’Aquila …
Per Pietro da Morrone sono stati quattro mesi e mezzo di lotta interiore, perché il frate di grande penitenza, sdegnando le baratterìe e simonie di corte, era orientato a dare al Sacro Collegio una forte connotazione monastica benedettina; è stato, però, osteggiato da quanti, fermi sull’idea secondo cui le ricchezze mondane acquistate e usurpate fossero necessarie alla Chiesa, lo esortavano a rinunziare al pontificato e, per orientarlo in tal senso, avevano escogitato l’inganno di parlargli di notte nella sua camera, fingendosi inviati da Dio … “Questo udito per più notti, Celestino mise in cuore, credendo sé insufficiente essere e cattivo, di rifiutare … finché Bonifazio, con ali, volto, mani e scritta, nella notte, è entrato ne la camera di lui dormiente e, fingendosi un angelo, minacciandogli pene infernali, gli mormorasse di rinunziare al Papato e ritornare a essere romito … I’ ti comando che domattina, fatto il dì, tu prenda il manto e ‘l pasturale, e ‘l primo cardinale che tu truovi fa sedere in su il trono di san Pietro e poi rifiuta e pàrtiti … La mattina dopo, il Caetani si è fatto trovare con in mano il testo delle dimissioni, vicino alla camera di Celestino che ha adempiuto il comandamento” (Chiose anonime alla prima Cantica della Divina Commedia di un contemporaneo del poeta, 1865, in wikipedia.org) … Il Santo eremita, nel Concistoro del 13 dicembre 1294, così, ha letto la bolla risolutiva …
Ego Coelestinus Papa Quintus, Io Papa Celestino V, motus ex legitimis causis, spinto da legittime ragioni, idest causa humilitatis, per umiltà, et zelum melioris vitae, e per l’aspirazione a una vita totalmente dedicata a Dio, et debilitate corporis, per la debolezza del corpo, per inculta loquela, per la propria ignoranza, non mens experta e defectu scientiae, per l’inadeguatezza culturale, et malignitate Plebis, e la malignità della plebe, ut praeteritae consolationis vitae possim reparare quietem, al fine di recuperare, con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, sponte ac libere cedo Papatui, abbandono apertamente e spontaneamente il Pontificato, et expresse renuncio loco, et Dignitati, et oneri, et honori, e rinunzio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta, et, ex nunc, e, sin da questo momento, do liberam facultatem, do libera facoltà, sacro Coetui Cardinalium, al sacro Collegio dei Cardinali, eligendi et providendi, di scegliere e provvedere, dumtaxat Canonice, secondo le leggi canoniche, universali Ecclesiae de Pastore”, di un pastore per la Chiesa Universale.
Undici giorni dopo l’abdicazione, la fumata bianca è stata favorevole al cardinale Caetani, un Papa ricordato come uno dei più forti e spregiudicati, una mina vagante subito in azione per intervenire su qualsiasi questione e non sempre in maniera chiara e plausibile … Appena eletto all’età di 64 anni, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi a lui contrari mediante la rimessa in trono di Celestino, ha subito infierito contro il famoso e veneratissimo eremita divenuto immediatamente “personaggio scomodo da eliminare”, con disposizioni affinché l’anziano monaco fosse messo sotto controllo. Mentre quell’animo tanto pio, misericordioso, schivo cercava la radicalizzazione della sua vocazione ascetica sul Morrone, prima, in Grecia, poi, è stato raggiunto, il 16 maggio 1295, dagli sgherri del neo Papa e rinchiuso in isolamento coatto in una fortezza della famiglia Caetani a Fumone in Ciociaria fino alla morte datata 19 maggio 1296 …
Gli storici narrano che Celestino, paradigma epocale dell’itinerarium mentis ad Deum, pur fortemente debilitato dalla deportazione e dalla successiva prigionia, sarebbe morto dopo aver recitato l’ultima messa e che, mentre veniva portato via, avrebbe profeticamente detto del Caetani che “Intravit ut vulpes , ha ottenuto il Papato come una volpe, regnabit ut leo, regnerà come un leone, morietur ut canis”, schiatterà come un cane, anticipando le accuse rivoltegli da Papa Nicolò III per aver ingannato “la bella donna”, straziando la Chiesa e trasformandola in meretrice (Inf. XIX, 57) con le operazioni di mercimonio. La teoria secondo la quale Bonifacio ne avrebbe ordinato l’assassinio è priva di fonti documentate, ma, di fatto, il cranio di Celestino presenta un foro corrispondente a quello producibile da un chiodo di dieci centimetri (Jean Coste, Boniface VIII en procès. Articles d’accusation et deposition des témoins, 1995, in wikipedia.org), anche se il Papa ha portato il lutto per la morte del predecessore, ha celebrato una messa pubblica in suffragio per la sua anima e ha dato inizio, poco dopo, al processo di canonizzazione (Ubertinus de Casali, Arbor vitae crucifixae Jesu, 1961, in wikipedia.org). Celestino è stato santificato il 5 maggio 1313 da Papa Clemente V a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo il Bello e da forte acclamazione di popolo, che hanno accelerando l’iter avviato da Bonifacio.
Lo strano comportamento di Bonifacio scatena ancor più la rabbia di Dante contro chi, esempio di umiltà e di buon senso, anziché fuggire dalle tante “insegne che, girando, correvano tanto ratte, che d’ogne posa parevano indegne” (Dante, Inf. III, vv. 52-54), avrebbe potuto eliminare tante storture; la negligenza di Celestino V, inoltre, gli pare ancor più imperdonabile soprattutto perché Bonifacio VIII, fortemente in contrasto con il guelfo bianco, ha subito manovrato per cacciarlo dalla città natale con la minaccia di essere “igne comburatur sic quod moriatur” se avesse rimesso piede a Firenze. L’autodiegetica vittima delle conseguenze originate delle sfrenate beghe politiche del tempo, con la relativa condanna, quindi, non può non biasimare con rabbia la “viltade”del monaco molisano che non ha avuto il coraggio di agire con fermezza, denunziando le molte e gravi storture della Chiesa.
Chi, però, si era sentito investito dalla missione profetica di scrivere un’opera attraverso cui “removère viventes in hac vita de statu miseriae, allontanare gli uomini dallo stato peccaminoso, et perducere ad statum felicitatis, e indicare all’umanità la via della rigenerazione e della salvezza” (Matilde Perriera, Il gran mare dell’essere, www.gabrieleametrano.com, 01/9/2011), non avrebbe mai potuto infierire su un’anima misericordiosa che avrebbe compiuto un tale gesto non per “ignavia di cuore”, quanto, fuggendo la corruzione del mondo e della Chiesa, per “conservare il suo spirito nell’umiltà”; Dante, infatti, anche se scriveva quando ancora Pietro da Morrone non era stato canonizzato, ha messo mano alla Commedia per tutta la sua vita e, pertanto, non avrebbe osato mettere, pena l’accusa di eresia, un Santo nell’Inferno e nemmeno accusarlo d’ignavia.
Il poema sacro, in effetti, non indica espressamente il nome di “colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Dante, Inf. III, vv. 59-60) e la viltà, nel verso di Dante, non è la vilitas, indice di bassezza morale o vigliaccheria; il termine richiama, piuttosto, “quella rilassatezza che, derivando da troppa scarsa coscienza di sé e delle proprie forze” (Natalino Sapegno, Commento all’Inferno, 1955), “molte fiate l’omo ingombra … sì che d’onrata impresa lo rivolve” (Dante, Inferno, II, vv. 45 – 47) e presupporrebbe un sinonimo di pusillanime, “caratteristica di chi, degno di grandi cose, si rifiuta di occuparsene perchè crede valere poco e l’altrui assai” (Tommaso d’Aquino, Commentarium ad Ethicam Nicomacheam, in wikipedia.org). Quella del Sommo Poeta, in tal caso, sarebbe una condanna non morale, ma politica, “dato che la mancanza di magnanimità ha portato Celestino alla rinuncia del papato, aprendo così la strada alle ambizioni del Caetani (Paolo Golinelli, Celestino V. Il papa contadino, Mursia, Milano, 2006); Pietro da Morrone, dunque, non sarebbe stato un inetto né un incapace né, tantomeno, un “ignavo” e la causa della sua rinuncia, espressa nei termini della dottrina canonica, andrebbe allora compresa nella sua “insufficienza”, nella sensazione di non possedere adeguata “scientia” per una carica che, come l’eremita aveva già chiarito nella bolla del 1294, doveva sentire di troppo elevato impegno per la remissività del proprio spirito.
Già i primi commentatori della Divina Commedia si erano posti il problema di dare un’identità al personaggio, anche se, in grande maggioranza, essi si sono trovati d’accordo nell’identificarlo in Pietro da Morrone. Primi fra tutti, Jacopo Alighieri, il figlio di Dante, il quale, scrivendo appena dopo la morte del padre, ha indicato in Celestino V colui che, “temendo d’altrui, il grande uficio apostolico rifiutò di Roma” (Jacopo Alighieri, Chiose all’Inferno, 1990, in wikipedia.org), poi, nel 1324, Graziolo Bambaglioli ha identificato l’ignavo con “Frater Petrus de Morono”, Fra’ Pietro de Morono, qui tante pusillaminitatis fuit, che fu tanto pusillanime, quod ex chautela et sagacitate domini pape Bonifatii renuntiavit pontificatui, da rinunziare al pontificato, grazie alle arti escogitate dal cardinale Benedetto Caetani, suo successore al soglio pontificio” (Graziolo Bombaglioli, Commento all’Inferno di Dante, 1998, in wikipedia.org); più articolato, forse più veritiero e senza aspra condanna ma con tanta amarezza, il parere di Jacopo della Lana, secondo cui Pietro da Morrone, “monaco di grande penitenza, che sdegnava le baratterìe e le simonie di corte, credendo sé insufficiente essere e cattivo, mise in cuore di rifiutare e così fece” (Jacopo della Lana, Comedia di Dante degli Allagherii col commento di Jacopo della Lana bolognese, 1326, in wikipedia.org).
… Ci si potrebbe orientare su una lettura diversa dei versi del III Canto dell’Inferno avvicinandosi alla prospettiva di Francesco Petrarca, il quale, nel “De vita solitaria” (1346-1356 ca), parlando con ammirazione della rinunzia al papato da parte di questo uomo amante della riflessione e della preghiera, sottolinea come essa fosse stata “coerente con la vita di uno spirito altissimo e libero veramente divino che, non conoscendo imposizioni, è fuggito dalla corruzione del mondo e della Chiesa”. Alla luce di tali riflessioni, entra in gioco la valutazione del Boccaccio, secondo cui Dante intendesse alludere a Esaù (Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, Canto III, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio», 1965, in wikipedia.org). Questo personaggio dell’Antico Testamento, infatti, incapace di reagire contro il fratello Giacobbe che l’aveva ingannato, avrebbe rinunziato alla primogenitura e alla benedizione di Isacco per un piatto di lenticchie. Celestino V ed Esaù restano le opzioni prevalenti per i commentatori successivi, finché, nell’Ottocento, è apparsa una quantità di nuovi nomi che, con la condivisione di Giovanni Pascoli, arrivano persino a Ponzio Pilato (Giovanni Pascoli, Colui che fece il gran rifiuto, 1957, in wikipedia.org). Più semplice, allora, ritenere che Dante non pensasse nemmeno a un personaggio concreto, ma fosse intenzionato a fare di quella figura centrale un “personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica che investe non un uomo singolo, ma tutta la innumerevole schiera degli ignavi” (Natalino Sapegno, Lectura Dantis Scaligera, I, Inferno, 1967) … E la vita travagliata di Celestino V, che la Chiesa cattolica celebra nella festa liturgica del 19 maggio, continua, ancora oggi, a tessere la sua storia immortale fra i tanti misteri che ne hanno connotato l’esistenza. Sepolto nei pressi di Ferentino, nella chiesa di Sant’Antonio sita nell’abbazia celestina che dipendeva dalla casa madre di Santo Spirito del Morrone, nel febbraio 1317, le spoglie sono state traslate a L’Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove era stato incoronato Papa; il 18 aprile 1988 la salma è stata rubata e ritrovata, due giorni dopo, nel cimitero di Cornelle e Roccapassa, frazioni del comune di Amatrice. A seguito del terremoto dell’Aquila del 2009, il crollo della volta della basilica ha provocato il seppellimento della teca con le ceneri, recuperate, poi, con la collaborazione dei Vigili del Fuoco, dalla Protezione Civile e della Guardia di Finanza.
Benedetto XVI, dunque, con la scelta di ritirarsi a vita privata, ha dato il “la” per restituire linfa vitale a una figura calpestata, mortificata, umiliata (Matilde Perriera, Avanti un altro, www.corriereinformazione.it, 11/02/2013), al papa di passaggio, eletto, probabilmente, solo per rimandare lo scontro tra le varie fazioni del lungo conclave e, contemporaneamente, per reperire le moltissime fonti che liberano l’exul immeritus dall’accusa di superficialità … Nei giorni tempestosi che hanno seguito il nuovo conclave, inoltre, è stato possibile rileggere “L’avventura di un povero cristiano”, premio Campiello del 1968, attraverso cui Ignazio Silone, modellando la sua opera su recenti studi approfonditi relativi alla figura emblematica dell’ignavo per eccellenza, ne ha riscattato la grande personalità; l’autore, nelle tre macrosequenze narrative, da narratore omodiegetico che si limita a riportare le parole dei personaggi, fa capire, infatti, che sarebbe stato impossibile a un animo di straordinaria fede e forza d’animo, votato alla solitudine e all’ascetismo, gestire il difficile rapporto, a quel tempo prioritario, fra l’individuo e i giochi di potere della Chiesa da cui era estraneo … L’autore abruzzese, insomma, ha fatto scoprire, nell’asceta, l’uomo del tutto sprovvisto dell’intelligenza politica e della spregiudicatezza necessarie per il ruolo di grande responsabilità che gli era stato assegnato, il Santo con capacità taumaturgiche, metafora di un cristianesimo puro e autentico, che ha preconizzato, con il suo dramma, la strenua difesa della luce di una coscienza interessata alla ricerca spirituale di Dio e alla carità verso i più deboli di contro al buio della corruzione, dell’intrigo politico, delle logiche di potere e dell’avidità imperanti nella Chiesa di allora … Una battaglia impari con un epilogo scontato solo in apparenza … La sua voce, infatti, non si spegnerà, soprattutto per quanti, decisi ad autodeterminarsi, non saranno disposti a sopportare l’imprigionamento morale nelle consuetudini corrotte, per quanti rifiuteranno di rimanere ingabbiati nella trappola del qualunquismo, per quanti proveranno un brivido di paura dinanzi alla gratuita violenza, per quanti continueranno ad afferrare i loro sogni affrontando i doveri insopprimibili della socialità