Il bullismo può essere considerato una sottocategoria del comportamento aggressivo, con alcune caratteristiche distintive:
– intenzionalità: il comportamento in oggetto è volto a creare un danno alla vittima;
le diverse forme in cui si manifesta: si può avere prepotenza fisica, verbale, indiretta;
– sistematicità: il fenomeno ha caratteristiche di ripetitività e perseveranza nel tempo;
– asimmetria di potere: nella relazione il bullo è più forte e la vittima più debole e spesso incapace di difendersi.
(Olweus, 1993; Coie e Dodge, 1998; Smith et al.,1999).
Il bullismo ha una modalità proattiva, ossia, è messo in atto senza provocazione da parte della vittima ed è agito al fine di giungere allo scopo dell’aggressore (Coie et al., 1991). Il bullismo trova la sua motivazione nell’affermazione di dominanza interpersonale, anche se in alcune forme può essere strumentale, ossia finalizzato al possesso di un oggetto o di uno spazio.
Sono stati identificati i ruoli principali che i soggetti possono agire in un contesto di prepotenza:
IL BULLO: secondo Olweus (1993) è caratterizzato da un comportamento aggressivo verso i coetanei e verso gli adulti, mostra scarsa empatia per la vittima e spesso è connotato da un forte bisogno di dominare gli altri ( Coie et al., 1991; Boulton e Underwood, 1992). Molte ricerche indicano che i maschi hanno più probabilità delle femmine di essere coinvolti (Olweus, 1993; Whitney e Smith, 1993; Genta et al., 1996).
LA VITTIMA: Solitamente è più ansiosa e insicura degli altri studenti (Olweus, 1993; Perry, Kusel e Perry, 1988; Kochenderfer e Ladd, 1997), se attaccata reagisce piangendo e chiudendosi in se stessa. Soffre spesso di scarsa autostima e ha un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Boulton e Smith, 1994). Solitamente la vittima vive in condizione di isolamento ed esclusione nella classe.
IL BULLO-VITTIMA o VITTIMA PROVOCATRICE (Olweus 1993): caratterizzato da una combinazione di due modelli reattivi, quello ansioso proprio della vittima passiva, e quello aggressivo proprio del bullo. Agisce comportamenti iper-reattivi, modelli internazionali che presentano difficoltà di regolazione a livello emotivo, a differenza dei bulli non vittimizzati che mostrano invece un comportamento aggressivo più organizzato ed orientato verso uno scopo (Sutton, Smith e Swettenham, 1999).
SOGGETTI DI CONTROLLO o ESTERNI: si tratta di coloro che a nessun titolo sono coinvolti nel fenomeno.
Per la rilevazione dei ruoli entro il gruppo si possono usare strumenti di autovalutazione, come il questionario anonimo sulle prepotenze di Olweus (tr. It. Menesini e Riannetti, 1997), dove si trovano domande a risposta multipla che chiedono ai soggetti di riferire circa prepotenze subite o agite in rapporto ad un arco di tempo definito, o la nomina dei pari che prevede la presentazione della definizione di prepotenza, e la successiva nomina dei compagni che spesso fanno prepotenze e di coloro che più spesso le subiscono.
Nella letteratura socio-psicologica i ruoli sono definiti quali modelli di comportamenti attesti da parte dei membri del gruppo, insieme di aspettative socialmente definite a cui gli individui tendono a conformarsi (Frantoi, 1996). I ruoli perciò sorgono sempre nell’interazione sociale e sono determinati sia dalle caratteristiche individuali sia dalle aspettative degli altri. Parlare di bullo entro una classe non significa solo che quel soggetto compie certi comportamenti, ma che egli percepito come tale dalla maggior parte dei membri del gruppo. E’ infatti da notare un’altra caratteristica distintiva del fenomeno bullismo, ossia che esso ha luogo in contesti di gruppo; si verifica a scuola, nei luoghi di lavoro o in altri gruppi sociali. Il potere del bullo risulta rafforzato dal supporto degli aiutanti, dall’allineamento dei sostenitori e dall’indifferenza di coloro che si tengono fuori dal problema.
Con il termine bullismo ci riferiamo perciò ad un processo dinamico in cui persecutori e vittime sono coinvolti in ugual misura. Tale fenomeno tende universalmente a decrescere con l’aumentare dell’età e la percentuale di femmine coinvolte è minore rispetto a quella dei maschi. Sono inoltre state individuate due forme fondamentali di bullismo, l’una di tipo diretto e l’altra di tipo indiretto.
Il bullismo diretto si articola in prepotenze fisiche e/o verbali, parte dal prevaricatore e si rivolge direttamente alla vittima, che subisce attacchi fisici o verbali o entrambi. Il bullismo indiretto ha una vittima intrappolata in una serie di dicerie sul suo conto, di atteggiamenti di esclusione nei suoi confronti, che la condannano all’isolamento. Questa seconda forma è quella agita di preferenza dalle femmine, mentre i maschi si orientano prevalentemente verso l’aggressività diretta.
Quanto all’atteggiamento delle figure di riferimento, i dati delle ricerche sono sconfortanti; secondo quanto riferito da Olweus, gli insegnanti non sembrano mettere in atto interventi diretti per contrastare il fenomeno e i genitori non sembrano esserne a conoscenza.
Rispetto alla stabilità nel tempo dei comportamenti rilevati, sembra che una volta che persecutori e vittime si sono insediati nel loro ruolo, non riescano più ad uscirne e continuino a recitare la stessa parte, pena la perdita della propria identità.
Circa le cause del bullismo, gli studi fino ad oggi condotti rimandano a una visione pessimistica della società nel suo complesso. Come afferma Olweus, i ragazzi che opprimono e quelli che subiscono sono il frutto di una società che tollera la sopraffazione, in parte per cecità, in parte per tornaconto personale. Ignoranza ed indifferenza aggravano la situazione. Ciò che sembra correlarsi stabilmente con il manifestarsi di comportamenti prepotenti, sono il clima familiare ed in particolare gli stili educativi messi in atto dai genitori. Bambini che vivono in famiglie in cui regnano violenza e sopraffazione hanno maggiori probabilità di interiorizzare schemi di comportamento disadattivi; una madre con scarso coinvolgimento emotivo, uno stile di allevamento improntato alla coercizione o al permissivismo, sono altri fattori che predispongono ad un rapporto alterato con il mondo esterno.
Riguardo alle aspettative dei bambini è interessante rilevare che mentre le vittime si aspettano dagli adulti un comportamento indifferente, i bulli si ritengono degni di approvazione e di rinforzo (Fonzi, Ciucci, Berti e Brighi, 1996).
Rispetto alle caratteristiche personologiche dei protagonisti dell’evento, Olweus dice che i bulli sono caratterizzati da aggressività generalizzata sia verso gli adulti che verso i coetanei, da impulsività e scarsa empatia verso gli altri, che hanno una buona opinione di sé e un atteggiamento positivo verso la violenza. Le vittime sono caratterizzate invece da atteggiamenti ansiosi e insicuri e da scarsa autostima.
Per quanto riguarda il peso di fattori legati alle caratteristiche individuali dei soggetti e alla loro esperienza sociale, l’attenzione della ricerca si è focalizzata sulla capacità dei soggetti di riconoscere le emozioni altrui. Si è constatato che la condizione sia di vittima che di bullo appare legata a difficoltà nel riconoscimento delle emozioni. Per le vittime si evidenziano deficit nel riconoscimento di specifici segnali emotivi, in particolare di quelli relativi alla rabbia. Da un lato tali difficoltà potrebbero impedire al bambino di riconoscere l’altro come potenziale aggressore e, conseguentemente, di difendersi da questi, dall’altro lato, l’incapacità di leggere tale emozione potrebbe ostacolare il controllo delle proprie manifestazioni comportamentali e favorire l’utilizzo di modalità che finiscono con il provocare ulteriormente la rabbia dell’altro. Per i bulli, si riscontra una generale immaturità nel riconoscimento delle emozioni, soprattutto per quanto riguarda la felicità. Entrambe gli attori cioè, risultano “sgrammaticati” in una competenza fondamentale che è quella che permette di cogliere i segnali emotivi che provengono dagli altri (Fonzi, Ciucci, Berti e Brighi, 1996). Secondo Perry, Perry e Kennedy (1992) i bambini vittimizzati e quelli aggressivi hanno difficoltà a gestire il conflitto; alla base di questa incompetenza sociale di fondo, gli autori ravvisano ipotesi riconducibili sia alla teoria dell’attaccamento (storie di attaccamento insicuro e resistenza sarebbero connesse a problemi di vittimizzazione) che a quella socio-cognitiva (una cattiva gestione dei conflitti familiari da parte dei genitori fornisce modelli comportamento inadeguati).
Un’ultima considerazione riguarda le differenze di genere, le femmine risultano più simpatetiche verso le vittime, confermando un atteggiamento prosociale già noto in letteratura. Ma le differenze di genere scompaiono quando si tratta di intervenire a favore delle vittime, con una discrepanza tra la percezione del problema e la sua concreta presa in carico. Colpisce che i bambini siano portati per natura a stigmatizzare gli episodi di violenza ma raramente si adoperino per impedirli e farli cessare (Bacchini, Amodeo, Valerio).
L’importanza Dell’Amicizia In Relazione Al Bullismo
Il clima psicologico che si respira in un contesto dove hanno luogo fenomeni di bullismo, è caratterizzato da un lato dal silenzio delle vittime, dall’altro dall’arroganza dei bulli che tendono a sottostimare il loro comportamento antisociale (Salmivalli, Lagerspetz, Bjorkvist, Osterman e Kaukiainen, 1996). I ricercatori sono attratti soprattutto dal gruppo dei coetanei, dal ruolo assunto dai membri del gruppo.
Il giudizio delle vittime nei confronti dei compagni è negativo (Bacchini e Valerio, 1997), questi non dimostrano solidarietà e raramente intervengono in loro aiuto. Il bullo non agisce da solo, alcuni compagni infatti, svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene l’attività del persecutore, altri ancorasi disinteressano, non manca poi chi tenta di opporsi fattivamente alle prepotenze per proteggere la vittima. In questo ruolo di difesa si trovano essenzialmente le femmine (Tomada, Tassi, 1999).
I processi di percezione sociale che si sviluppano nella classe generano stereotipi che condizionano il proprio e l’altrui agire; il modo in cui gli altri interpretano il comportamento di un membro del gruppo, può costituire una sorta di percorso obbligato, che porta all’assunzione del ruolo di persecutore o di vittima (Caprara, Pastorelli, Barbaranelli, e De Leo, 1997).
Godere del favore dei compagni significa disporre di preziose opportunità sociali, il rifiuto al contrario, porta l’ostilità dei compagni che si traduce, di solito, nell’esclusione dalle attività collettive e in altre forme di ostracismo. Nella quasi totalità dei casi, i compagni esprimono nei confronti della vittima antipatia e rifiuto (Perry, Kusel e Perry, 1988; Whitney, Nabuzoka e Smith, 1992), mentre l’atteggiamento verso il bullo varia in base a diverse circostanze. Ruolo cruciale assumono i fattori individuali e contestuali (Coie e Dodge, 1998). Con lo sviluppo della capacità di giudicare secondo criteri morali, l’uso di condotte aggressive è considerato riprovevole e chi le agisce degno di rifiuto. Anche l’efficacia delle azioni ha un ruolo importante nell’assunzione di un atteggiamento da parte dei membri del gruppo. Il rifiuto viene espresso verso quei compagni che con le loro condotte aggressive non raggiungono lo scopo e che sono allo stesso tempo persecutori e vittime.
Analizzando il ruolo dell’amicizia, troviamo che questa si basa su un forte legame affettivo e una reciproca attrazione che fa dei due partner un’unità superindividuale, un “noi” in cui le potenzialità e le caratteristiche di ciascuno vengono esaltate; tale relazione si sostanzia nella condivisione di affetti e atteggiamenti, nel reciproco aiuto, nel difendersi e coalizzarsi contro i nemici esterni e nella comunanza di situazioni ed attività (Bukowski, Hoza e Boivin, 1994; Fonzi, Tani e Schneider, 1996).
Per quanto riguarda il bullismo, alcuni autori hanno sottolineato la funzione protettiva della relazione amicale: i soggetti con caratteristiche a rischio di vittimizzazione, nella misura in cui hanno amici, sono in grado di reagire e difendersi. Recentemente però l’ipotesi della funzione protettiva si è ridimensionata (Hartup, 1996) per l’evidenza di interazioni sociali non sempre connotate da modalità sociali positive: l’amicizia tra soggetti antisociali può ad esempio costituire un contesto in cui si pratica la coercizione (Dishion, Andrews e Crosby, 1995). Inoltre, i ragazzi che hanno amici aggressivi possono essere spinti ad agire con prepotenza verso i coetanei, anche se tale modalità sociale non caratterizza il loro repertorio comportamentale (Grotpeter e Crick, 1996).
Una ricerca svolta da Tomada e Tassi indica che i bulli sono scelti come amici al pari dei soggetti non coinvolti e delle vittime, di contro sono più rifiutati dei non coinvolti. In ogni caso possono contare su una quantità di amicizie reciproche analoga a quella degli altri gruppi considerati. I soggetti con cui sono in relazione di amicizia reciproca hanno una desiderabilità amicale non dissimile da quella degli amici reciproci delle vittime e dei non coinvolti. Gli amici dei bulli sono meno vittimizzati degli amici delle vittime e tendono ad essere più prepotenti. Per quanto riguarda le vittime, anch’esse possono contare su una rete di relazioni amicali; hanno amici che condividono la loro condizione e questa somiglianza non sembra costituire un elemento a favore del superamento dello status di vittima; d’altro canto però, potrebbe fornire supporto emotivo e introdurre elementi in grado di destabilizzare la dinamica persecutore-vittima.
Importanza E Qualità Delle Relazioni Amicali In Adolescenza E Nell’arco Della Vita
La nascita, il formarsi e il progredire delle relazioni interpersonali sono eventi importanti nella vita dell’individuo sin dai primi anni di vita. Già nelle prime esperienze di gruppo, il mondo interpersonale del bambino, lungi dall’essere indifferenziato, è caratterizzato da scelte specifiche e da legami preferenziali, che talvolta si consolidano in vere e proprie amicizie (Hinde, 1979).
Diverse sono le funzioni che l’amicizia svolge nello sviluppo dell’individuo: oltre a quella più ovvia di fornire compagnia e divertimento, le relazioni amicali costituiscono dei contesti privilegiati all’interno dei quali i soggetti acquisiscono o elaborano competenze sociali basilari come la comunicazione o la collaborazione; inoltre forniscono al soggetto la conoscenza di sé, degli altri e del mondo ed offrono un valido supporto emotivo in caso di stress. Infine tali relazioni possono considerarsi i precursori di relazioni significative future (sentimentali, matrimoniali, genitoriali) poiché danno la possibilità di sperimentare la gestione dell’intimità e della regolazione reciproca (Hartup, 1992). Lo sviluppo dell’amicizia è da intendersi come cambiamento costante e continuo lungo una traiettoria che va dal concreto all’astratto, da una situazione di rapporto passeggero ad una di aiuto unilaterale, per sfociare infine in un’intimità condivisa (Howes, 1987).
La mancanza di amici risulta associata ad un maggiore rischio di sviluppare problemi emotivi, di incontrare difficoltà nell’assumere prospettive diverse dalla propria, oltre che di manifestare carenze nello sviluppo di alcune competenze sociali necessarie alla vita di gruppo, al gioco di squadra e alla gestione dei conflitti (Schaffer, 1996).
Per un soggetto in età scolare, la qualità delle sue relazioni con i coetanei costituisce un indicatore rilevante delle sue capacità di adattamento personale e sociale. E’ opinione diffusa che la qualità di tali legami possa costituire un elemento di “protezione” dal rischio in età evolutiva.
Rispetto all’età, secondo quanto detto da Schneider e Greenman, la similarità e la prossimità, giocano un ruolo rilevante nella formazione delle relazioni amicali fra bambini piccoli (Hinde et al., 1985), ma quelli più grandi identificano la lealtà e la fiducia come prerequisiti fondamentali perché l’amicizia possa continuare (Berndt, 1986). Caratteristiche basate su criteri affettivi, come intimità e supporto, acquistano un significato sempre maggiore con il passare del tempo (Berndt, 19686; 1996; Bigelow, 1977; Furman d Bierman, 1983).
E’ a partire dall’infanzia che le interazioni sfociano in relazioni; la conoscenza diviene la base dell’amicizia, si ricercano relazioni sociali significative.
Fra gli adolescenti gli elementi determinanti divengono l’intimità e la lealtà e l’appoggio personale risulta particolarmente spiccato. Comunque la presenza di un amico è fonte di sicurezza in momenti di stress, ad ogni età (Rutter e Rutter, 1995).
Nei gruppi sociali le gerarchie sono subito evidenti; in adolescenza sia le capacità sociali che atletiche sono importanti per assumere la leadership del gruppo. Sia nei gruppi maschili che in quelli femminili si cerca di esercitare la propria influenza sugli altri; le femmine usano complimenti, richieste di consiglio e di favori o raggiri, i maschi usano mezzi fisici come colpire e spingere (Rutter e Rutter, 1995). Le amicizie tra femmine sono più esclusive di quelle tra maschi; questi sono più combattivi nelle modalità e nelle interazioni verbali; le femmine sono più disponibili alla condivisione emotiva (Hendrick in Cuck, 1988).
E’ ormai certo che i problemi nelle relazioni tra pari sono strettamente associati ad un’ampia gamma di disturbi psichiatrici (Rutter, Tizard, Whitmore, 1970). Cattive relazioni con i pari sono predittive del successivo sviluppo di numerosi problemi psicosociali (Asher, Coie, 1990; Parker, Asher, 1987), questo perché:
il rifiuto dei pari agisce come fattore di stress; i soggetti rifiutati divengono bersaglio dell’aggressività degli altri e nel tempo la mancanza di successo sociali li relega ai margini delle attività sociali, spingendoli a stringere relazioni con i membri del gruppo meno accettati socialmente.
I soggetti rifiutati sono meno protetti dallo stress essendo esterni ai gruppi e mancando quindi di sostegno sociale
Il mancato coinvolgimento in attività sociali fa sì che essi perdano importanti occasioni per maturare esperienze sociali
Autostima e autoefficacia risultano carenti
Infine il rischio può emergere dai comportamenti devianti.
Rifiuto e aggressività sono dunque spesso collegati, secondo Dodge “l’aggressività è una forma di incompetenza sociale”. Il rifiuto dei pari non è comunque un fenomeno unitario ed occorre differenziare il rifiuto associato a comportamenti aggressivi da quello associato ad un comportamento ansioso, insicuro ed introverso; mentre il primo può predisporre alla delinquenza e a disturbi antisociali, il secondo conduce ad ansia e a disturbi depressivi (Rubin in Asher, Coie, 1990).
Il ragazzo adolescente è un essere teso a costruire attivamente, anche se faticosamente, il proprio itinerario di vita; è un’inevitabile percorso di maturazione, forse in qualche punto accidentato. Le ricerche attuali hanno uno stampo ottimistico ed indagano in prevalenza i fattori di protezione che possono aiutare il ragazzo nella transizione verso l’età adulta, permettendogli di evitare insicurezza e disagio. La prospettiva si allarga individuando fattori, abilità e percorsi che possano neutralizzare o contrastare l’insorgenza di situazioni a rischio; soffermandoci sul dominio interpersonale (Noam, et al., 1991), uno dei responsabili del benessere evolutivo, possiamo notare che le relazioni importanti in questo momento evolutivo, non sono più o soltanto quelle stabilite con i genitori, ma soprattutto quelle che costruisce con i coetanei, che richiamano la competenza sociale globale ritenuta fondamentale per un buon adattamento. Tale competenza si articola su più livelli quali la popolarità nel gruppo dei pari, l’attitudine alla leadership, la capacità di stringere legami amicali su cui ci si sofferma nella convinzione che si tratti di uno snodo base della vita dell’adolescente che, da una lato può contribuire al suo benessere, dall’altro può costituire un ostacolo nel suo percorso evolutivo (Fonzi, Tani, 2000). Già Sullivan (1953), in una serie di conferenze degli anni ’40, aveva sottolineato come una funzione chiave dell’amicizia nel corso dello sviluppo, fosse quella di correggere visioni distorte della vita sociale che i bambini potevano aver assunto dai primi rapporti coi genitori, ipotizzando persino che la mancanza di amici in infanzia e adolescenza potesse creare un “deficit sociale” incolmabile.
Il modello dell’interazione simbolica di Mead (1934), dice che solo attraverso il rapporto con un altro o con un insieme di altri l’individuo arriva a vedere se stesso come oggetto di appropriazione e a modellare il proprio comportamento alla luce di quello altrui; su questa base Fine (1981) ha individuato tre funzioni fondamentali dell’amicizia: 1) essa offre un’area di prova per il comportamento; 2) essa è un’istituzione culturale e come tale offre un addestramento didattico; 3) essa costituisce un contesto per la crescita del Sé sociale del ragazzo, contesto in cui il soggetto può imparare quale è l’immagine appropriata di sé da proiettare in situazioni sociali.
Ricerche attuali, sulla promozione del benessere psicosociale e sulla riduzione del malessere, evidenziano che la buona qualità delle relazioni amicali aumenta la stima di sé, le aspettative ottimistiche di successo, svolgendo anche un ruolo protettivo contro lo stress e contro il senso di alienazione e i sentimenti depressivi (Cattelino, 2000). Le conferme sociali agiscono come feedback rafforzando le caratteristiche alla base del successo del soggetto e, arricchendolo di tutte le sollecitazioni derivanti dall’interazione sociale e dal rapporto con i pari, contribuiscono al raggiungimento del benessere psicologico. Dunque il legame amicale è uno dei molti fattori che possono favorire o, in caso di cattive amicizie, ostacolare il benessere psicologico dell’adolescente. L’adolescenza è caratterizzata da compiti evolutivi impegnativi, primo tra tutti la definizione della propria identità sociale e personale, accompagnato dal bisogno di maturare una nuova e più autonoma consapevolezza di sé fondata su un graduale processo di autodefinizione, dal bisogno di sperimentare se stessi in un ambiente fisico e sociale più ampio rispetto ai limitati spazi dell’infanzia. In questo contesto assume pieno significato il ruolo di tramite svolto dai legami amicali con i coetanei; tali legami garantiscono un apporto di rassicurazione che sostengono l’adolescente nello sforzo di separazione-individuazione che molti autori descrivono quale “nuova nascita psicologica” (Blos, 1978). Lo stare con gli amici garantisce occasioni di crescita e stimolazioni nuove che contribuiscono ad ampliare i suoi interessi e ad arricchire le sue conoscenza, portandolo a sviluppare opinioni personali. La ricerca degli amici è finalizzata e gratificata dal “fare insieme qualcosa”, col passare del tempo le relazioni diverranno invece orientate al parlare, discutere, comunicare. Nel fare insieme, condividere insicurezze e paure, gli adolescenti esorcizzano l’ansia del nuovo, imparano a valutarsi in base alle qualità che vengono riconosciute e apprezzate dagli altri. L’ambiente supportivo che si crea, permette al ragazzo di imparare significati sociali, di acquisire e affinare abilità che sono necessarie per interagire con gli altri.
Il ragazzo sperimenta così un processo di socializzazione “omosociale” che gli consente di esperire dei rapporti paritetici con gli altri; l’amicizia diviene sotto questa luce zona franca tra la famiglia e la società, situazione protetta in cui può esercitarsi, “luogo” di apprendimento dei valori di reciprocità, collaborazione, lealtà. Rinunciando ad affermare ad ogni costo la forza delle proprie idee e imparando a mediare il proprio punto di vista con quello degli latri si possono costruire legami stabili; ed è attraverso il confronto di esperienze, che si realizza con le reciproche confidenze, che si attenuano ansie e paure, attraverso la scoperta di non essere diversi (Berndt, 1982; Claes, 1992). I rapporti di amicizia in adolescenza, acquistano connotazioni simili a quelle dell’innamoramento: il carattere simbiotico, la ossessività, l’esclusivismo, l’idealizzazione dell’altro, la gelosia, il conflitto. Il reciproco autodisvelamento poi, dà all’adolescente la conferma che l’altro ha bisogno di lui, che apprezza il suo punto di vista e ricerca i suoi consigli; tutto ciò contribuisce significativamente al rafforzamento del Sé, allo sviluppo dell’autostima.
In ogni conversazione fra amici vengono messe in moto diverse strategie e richieste di notevole complessità (Gottman e Mettetal, 1986): onestà, vulnerabilità, reciprocità di rischio dell’autoesplorazione, capacità e volontà di risolvere i problemi nonostante ciò richieda di confrontarsi con la brutale verità proposta dall’amico.
Nella prima adolescenza esistono significative differenze nelle caratteristiche di personalità dei ragazzi che hanno molti amici rispetto a quelli che invece non ne hanno. Le caratteristiche alla base della capacità di avere amici sono l’espressività e la stabilità emotiva, il sapersi adeguare alle regole del gruppo e la socievolezza; dunque sembra che la capacità di avere amici sia un indicatore dello sviluppo di più ampie capacità sociocognitive e affettive dell’individuo. Tali caratteristiche sono diverse nei due sessi; mentre i maschi che hanno più successo come amici sono quelli più stabili emotivamente, più intraprendenti e pieni di iniziative, più portati ad agire in gruppo, più spontanei e rilassati nei rapporti con gli altri, le femmine più apprezzate sono quelle più capaci di esprimere i propri stati emotivi, più sottomesse e che mostrano maggior rispetto perle regole sociali d un più forte senso dei propri obblighi e doveri nei confronti degli altri, ma che si mostrano al tempo stesso più socievoli e sicure di sé.
L’amicizia intima però, non è solo fonte di effetti benefici sull’individuo; essa infatti comporta anche effetti indesiderabili, soprattutto a carico di coloro che da tale legame sono esclusi; a volte essa elicita la messa in atto di comportamenti regressivi e antisociali; non insegna solo a comportarsi in modo positivo con gli altri, ma anche a rifiutarli (“lui non deve uscire con noi”) e a stereotipizzarli (“ecco che viene quel cretino di …”), generando non solo accettazione, ma anche insicurezze, gelosie, risentimenti.
Coloro che non hanno amici si trovano ad essere deprivati di molti benefici, il rifiuto e la risposta negativa da parte di altri attivano sentimenti di inadeguatezza, di indegnità, di rabbia, che possono portare a sviluppare forme diverse di disturbi psichici. La mancanza di amici può interferire con l’abilità del ragazzo di sviluppare quella rete di supporto sociale che può agire come fattore protettivo nei momenti di stress. Ma anche l’avere amici può non possedere sempre una funzione protettiva: in alcuni casi anzi, può essere una lama a doppio taglio, infatti, più ci si dedica ad un numero ristretto di amici, più si precludono opportunità di incontri ed esperienze sociali. Si possono poi avere “cattivi” amici o intrattenere con gli amici rapporti sbagliati e questo può addirittura costituire un fattore di rischio nel corso dello sviluppo (Fonzi, Tani, 2000).
Nell’attuale contesto sociale, gli aspetti di rischio connessi alla crescita, sono ulteriormente accentuati. L’adolescenza si configura sempre di più come un periodo di preparazione ad una condizione adulta procrastinata nel tempo, una fase in cui ciò che è transitorio e labile tende a farsi paradossalmente stabile (Cigoli, 1994) e rischia così di rallentare la traiettoria evolutiva di quei ragazzi mantenuti ai margini della società produttiva, fatto che non consente loro di acquisire uno status legittimato (Hurrelmann, 1989). Anche il venir meno di molti aspetti conflittuali nel rapporto tra adulti e adolescenti, più che un indice di coesione e vicinanza generazionale, va letto come imperativo sociale di armonia, che si traduce in un sottile processo di omologazione dei valori e delle aspettative e rende difficoltosa la possibilità di elaborare in modo critico ciò che si scambiano le generazioni (Sciolla, Ricolfi, 1990). Il passaggio all’età adulta risulta oggi più faticoso ed i rischi per coloro che dispongono di minori risorse a livello personale e relazionale, tendono ad amplificarsi. Molto diffuse sono quelle situazioni sfumate di ritiro sociale, con connotazioni di tipo depressivo, che sono meno evidenti e possono anche confondere perché non sempre ad esse vengono attribuite caratteristiche di pericolosità sociale, ma che rappresentano un forte ostacolo per la formazione di una solida identità dell’adolescente (Barbaranelli, Regalia, Pastorelli).
Fra le dimensioni cruciali nel comprendere, predire e contrastare queste situazioni di rischio, troviamo il costrutto di self-efficacy o “autoefficacia percepita”. Questa riguarda essenzialmente la percezione e la valutazione che una persona fa delle proprie capacità di affrontare con successo un determinato aspetto della realtà. Le credenze che le persone hanno delle proprie capacità e le aspettative di efficacia che esse nutrono in ambiti specifici della vita, incidono sulle aspirazione e le mete che intendono perseguire, sull’impegno agito per raggiungerle, sulla capacità di affrontare le frustrazioni sui processi di spiegazione delle condotte (Schwarzer, 1992; Bandura, 1997). L’autoefficacia favorisce lo sviluppo di capacità sociali e cognitive che incidono sul buon adattamento degli individui (Bandura, 1995), inoltre, nel resistere alle pressioni esterne relative all’agire comportamenti devianti, l’autoefficacia risulta fortemente e positivamente correlata all’assenza di tali comportamenti; funzione cruciale nel salvaguardare o nel favorire esiti di tipo depressivo nella fase adolescenziale Ehrenberg, Cox, Koopman, 1991).
AMICIZIA E GENERE SESSUALE
Riguardo al genere nei rapporti amicali, è importante notare le diverse funzioni che il genere appunto assume: con gli amici dello stesso sesso ci si confronta, da quelli del sesso opposto ci si distingue. Attraverso l’integrazione di tali diverse esperienze relazionali, l’adolescente procederà ad assumere un ruolo sessuale adulto. A partire dalla preadolescenza cominciano ad emergere differenze significative fra i due sessi, che tendono a mantenersi costanti per tutto l’arco di vita. Tali differenze sono dovute essenzialmente alla maggiore intensità che il legame amicale assume per le femmine. L’amicizia fra uomini presenta dunque caratteristiche più impersonali, forse esistono barriere che impediscono la formazione di legami intimi e profondi fra soggetti di sesso maschile (Lewis, 1978): la competizione, l’omofobia, l’avversione alla vulnerabilità e all’apertura e, infine, la mancanza nella letteratura moderna di modelli di amicizie maschili caratterizzati da intimità reciproca e palesi manifestazioni affettive per il bisogno di salvaguardare un ruolo “maschile” che presuppone la capacità di essere autosufficienti, indipendenti, in grado di affrontare e superare difficoltà ed ostacoli (Seidler, 1992). I maschi hanno paura di mostrare agli amici la parte più debole e vulnerabile della loro personalità, le loro paure e le loro angosce, perché questo potrebbe mettere in discussione la loro mascolinità e la piena accettazione da parte degli altri. L’omofobia è riconducibile al fatto che l’espressione di tenere manifestazioni di affetto tra uomini è ritenuta nella nostra cultura appannaggio solo degli omosessuali.
C’è un’interessante ipotesi psicoanalitica proposta da Rubin (1985), secondo cui il bambino per assumere il proprio ruolo maschile deve abbandonare l’identificazione con la madre, la prima persona interiorizzata nel suo mondo psichico, e al suo posto deve ricercare un’identificazione equivalente col padre; egli acquista cioè il senso di sé in seguito ad un radicale rifiuto della vicinanza alla madre, ricavando la consapevolezza della propria mascolinità da ciò che non è femminile. Il suo vissuto di identità è quindi molto più legato alla separazione e alla diversità che non all’identificazione. Per proteggersi dal dolore provocato da tale cambiamento radicale nel suo mondo interiore, il bambino è costretto a mettere in atto una serie di comportamenti difensivi. L’identità maschile è il frutto della separazione, il ché fa sì che gli uomini si sentano in pericolo se restano coinvolti in un rapporto intimo con gli altri. Al contrario la bambina non ha bisogno, per formarsi un’identità, di operare una violenta rottura con il passato. Essa non deve rimuovere la rappresentazione interiorizzata della madre. Una volta adulta, i confini del suo ego saranno più permeabili ed elastici e ciò avrà una grande importanza nella gestione della sua vita interiore e sociale. Essendo la madre dello stesso sesso infatti, la figlia non ha bisogno di separarsene completamente e irrimediabilmente come fa il maschio; gli stretti legami personali costituitisi precocemente si manterranno inalterati promovendo la capacità di partecipare alla vita interiore di un’altra persona, di intuire gli stati emotivi altrui come se fossero i propri.
Secondo alcuni autori, invece, l’amicizia fra donne appare più intima solo perché l’intimità è stata concettualizzata e misurata in termini squisitamente femminili (Wellman, 1992; Fehr, 1996). In altre parole, le amicizie maschili e femminili sono ugualmente intime , ciò in cui differiscono è il modo di intendere e raggiungere l’intimità.
Per quanto riguarda le amicizie eterosessuali, sempre più diffuse, i maschi trovano soddisfacenti i rapporti di amicizia con le ragazze perché è con loro che si confidano e riescono a manifestare la parte più vulnerabile ed emotiva della propria personalità; le femmine considerano il rapporto di amicizia con l’uomo importante e significativo perché permette loro di arricchirsi e fornisce un’ottica e una prospettiva diversa con cui vedere le cose (Rubin, 1985).
MISURARE L’ AMICIZIA
Prima che l’analisi di un particolare tipo di relazione possa iniziare, è necessario che la relazione stessa sia identificata come tale. La prima domanda che i ricercatori devono porsi è come sapere che una particolare relazione fra due soggetti è davvero un’amicizia. In genere per rispondere a tale domanda si usa il metodo delle scelte reciproche, le nomine dell’amicizia o una combinazione tra i due metodi.
Le misure di scelta reciproca implicano generalmente il chiedere ai bambini di designare quali sono i compagni con cui vorrebbero giocare, mangiare, studiare o intraprendere altre attività Price e Ladd, 1986; Yugar e Shapiro, 2001). Il fatto che due soggetti si scelgano reciprocamente non sembra da solo sufficiente a identificare l’esistenza di una relazione di amicizia tra loro (Hatup, 1995; Yugar e Shapiro, 2001), anche se in qualche ricerca la mutua preferenza per l’interazione è assunta come criterio per stabilire l’esistenza di una relazione di amicizia (Howes, 1983).
Le nomine dell’amicizia si basano sul domandare ai bambini di identificare individui specifici che essi considerano amici. La conferma che esiste una relazione di amicizia non può che derivare da entrambi gli individui implicati in essa (nomine totalmente consensuali).
Le tecniche sociometriche analizzano la posizione di ogni soggetto entro il gruppo, a tale proposito la distinzione tra popolarità e amicizia è importante perché si tratta di due costrutti separati. Un soggetto può essere molto popolare fra i suoi compagni ma non avere necessariamente un’amicizia intima con qualcuno di essi. Price e Ladd (1986) sottolineano infatti che “mentre l’attrazione interpersonale si riferisce ad un atteggiamento positivo, come il piacersi, le relazioni interpersonali si riferiscono a qualche forma di legame continuativo fra individui”.
Questionari e interviste valutano le idee dei soggetti sull’amicizia e la loro comprensione del legame amicale.
Le interviste semi-strutturate contengono domande totalmente aperte che i rilevatori valutano per la presenza o assenza di specifiche caratteristiche; la loro validità è incerta. Le interviste strutturate assomigliano ai questionari, in quanto contengono domande specifiche e mirate perle quali il numero di possibili risposte è limitato.
I questionari forniscono misure standardizzate di specifiche caratteristiche delle amicizie infantili (Schneider, 2000). Misurano la qualità e le altre maggiori caratteristiche dell’amicizia. Essi includono prevalentemente le caratteristiche positive (eccetto il conflitto) come l’aiuto, il tempo trascorso insieme, la fiducia, l’intimità, l’autodisvelamento o la conferma. Solo alcuni questionari includono informazioni sull’equilibrio di potere o di affetto (Furman, 1996) e sul livello di coalizione o di aggressività relazionale eventualmente presente all’interno della relazione amicale (Crick e Nelson, 2002; Grotpeter e Crick, 1996).
Poiché le caratteristiche delle relazioni interpersonali non possono essere ingerite direttamente dalle caratteristiche individuali dei partner della relazione, è auspicabile accostarsi allo studio delle relazioni tra pari utilizzando un approccio di tipo diadico, che rivolga l’attenzione non tanto ai singoli comportamenti dei partecipanti, quanto ai comportamenti “congiunti”.
I metodi osservativi costituiscono una valida alternativa o un utile complemento alle interviste e ai questionari. Forniscono importanti informazioni sui processi che avvengono e che sottendono le interazioni sociali dei bambini (Pepler, 2002); inoltre presentano poche distorsioni sistematiche. Ci sono molti modi di osservare, come le checklists per registrare il verificarsi di specifici comportamenti target, le descrizioni del comportamento durante il suo svolgersi, le videoregistrazioni, ecc (Pepler e Craig, 1998).