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Il farsi della coscienza come condizione dell´etica

Da qualche tempo l’interesse per la coscienza da parte delle neuroscienze si va facendo sempre più intenso e mirato. Prima, come ha ricordato Francisco Varela (2001) in una nota conversazione con Sergio Benvenuto, la coscienza “restava qualcosa di mistico, di pertinenza dei filosofi, più che un tema scientifico”.
Dopo l’interesse mostrato da James in psicologia allo stesso problema, gli odierni tentativi delle neuroscienze di indagare la coscienza sembrano più interessanti di quelli, mai abbandonati, condotti dalla filosofia. La centralità della ricerca, sia in James sia nelle neuroscienze, è quello di tentare di comprendere quali correlati psicologici e neurologici siano implicati quando si attivano quei particolari processi cognitivi che rendono più consapevoli le nostre elaborazioni e le nostre decisioni.
Perché solo da qualche tempo le neuroscienze si occupano della coscienza? Si può facilmente inferire che il dominio scientifico esercitato dal Comportamentismo non ha favorito l’attivazione di ricerche che avevano bisogno dello studio dei sistemi neurali. Con l’affermarsi del concetto di cognizione, derivato dal ribaltamento del paradigma comportamentista, col sopravvento di quello elaborato dal Cognitivismo degli anni 70, si va in un’altra direzione di ricerca. Ma non siamo ancora all’avvento dello studio della coscienza, per il quale bisognerà attendere gli anni 90
Da allora il cammino compiuto dalla ricerca è stato notevole fino a far parlare di scienza della coscienza.
Beninteso qui non ci si occuperà di questo, ma di quella particolare dimensione del problema che è correlata alla nascente neuroetica; vale a dire dell’apparato cognitivo che rende l’esperienza e l’esistenza dei vissuti significativi.
Si tratterà di indagare come facciamo a segnalare che, in una certa fase dell’esperienza conoscitiva umana, vi è l’emergere della coscienza a rendere personalmente acuta e ricca la comprensione.

Intanto che cos’è la coscienza, oltre il fascino del mistero che in gran misura ancora l’avvolge?
La prospettiva da cui muoviamo è, per certi versi, relativamente facilitante. Si dispone -teoricamente- di un metadominio di osservazione costituito dai principi etici di valore universale; tale che – in forma sintetica- potremmo affermare, come osservatori, che una determinata condotta di una persona e le motivazioni che essa adduce si situano lungo dimensioni di significato che tendono al superamento di fasi dell’egocentrismo.
Tale affermazione implica una certa consapevolezza che ha a che fare con razionali processi di elaborazione cognitiva e, insomma, con un certo grado di coscienza della differenza –nella fattispecie- tra egocentrismo e altruismo. Il raggiungimento di questa consapevolezza non è difficile da ottenere. Siamo di fronte a una verità che tutto sommato è impersonale. Di fatto, per registrare comportamenti coerenti “le ragioni per l’azione devono ancora appellarsi a qualcosa di interno” (Searle, 2003, p. 129) che sia qualcosa di diverso dalle azioni compiute dagli scimpanzé di Kohler per raggiungere i loro oggetti meta. Insomma l’emergere della coscienza comporta una condizione che sia qualcosa di più e di diverso dallo stato psicologico dei desideri.
È vero che il processo di ragionamento può produrre azioni se vi è uno stato interno che funga da motivazione per esse. Ma qual è tale generale condizione se non quella che coincide col “cercare l’autoconservazione, la prosperità, l’autonomia e una quantità di altri obiettivi desiderabili” (Id.), ma compatibili?
Risiede qui il dramma dell’emergere della coscienza: nella coesistenza della legittimità della salvaguardia della sicurezza personale con la consapevolezza non solo di essere cittadini del mondo ma anche con quella consapevolezza (est)etica di vivere con stile l’avventura umana.

Come si vede, la prospettiva da cui si muove è assimilabile più alle neuroscienze cognitive che alle neuroscienze classiche, volendo sottolineare qui anche l’assoluta non invasività della persona, ma cercando di conoscerne l’esperienza, nei correlati neuronali.

Dunque non ci si occuperà delle neuroscienze tradizionali e dei suoi straordinari strumenti di indagine come la PET e l’IRM.
Qui si porranno questioni cognitive che si fondano su basi neurologiche, cercando di comprendere quali connessioni neurali da attivare possano rendere più possibile l’emergere della coscienza.
Già un’impresa di questo tipo è da far tremare i polsi e richiede ben altri specialismi e collaborazioni.
Allora cerchiamo subito di circoscrivere il campo di lavoro, assumendo la posizione di J. Cohen, circa l’ipotesi che è più possibile ottenere la comprensione dei dilemmi morali se si pongono gli stessi in forma personale e dunque stimolando le basi neuronali delle emozioni.

Cerchiamo di trattare il passaggio, dall’ottica del fare formazione, tra la comprensione di contenuti di pensiero e la presa di coscienza della loro complessità ermeneutica.

Allora assumiamo il concetto di coscienza non nel senso dei diversi gradi di vigilanza che essa implica, ma come azione complessiva dell’organismo che è percettivamente guidata e che, proprio perché tale, si interroga sui contenuti e le forme degli oggetti di conoscenza allo scopo di coglierne dimensioni prima non colte.
In tal senso non può escludersi che vi siano implicati connotazioni morali, diversamente da come sembra suggerire Searle (1994, p. 99).

Perché? Perché, oltre ogni altra perfettibile definizione della coscienza, non si può prescindere dal fatto che essa nell’implicare una qualche forma di ritorno sulla conoscenza, come l’introspezione o come la più profonda fenomenologia, possa cogliere di quei contenuti anche significati morali, dovuti a questa ulteriore indagine dell’organismo del quale il cervello costituisce la condizione di fattibilità..
Questo ritorno dell’organismo sugli oggetti della conoscenza è quanto mai vitale “se si considera che, durante la veglia, i nostri stati mentali sono coscienti solo in minima parte” (Searle, Id., p.101). Tanto che Varela (Op.cit. ) è costretto, quasi con toni drammatici, a chiedersi perché si stenti a por mano a strategie di riduzione delle precomprensioni ad effetto stereotipante.

Dunque, qui non trattiamo degli stati di coscienza per cui sappiamo – per esempio- che sono le sette del pomeriggio e bisogna prepararsi ad andare a cena dai Rossi e che bisogna quindi raggiungere l’altra parte della città in orario utile; e nemmeno del fatto che una pianificazione del tipo su esposta sia strettamente connessa al nostro modo personale di essere; anche se in qualche misura ci riferiamo alla soggettività della coscienza in quest’ultimo senso. Vale a dire che noi accediamo comunque ai dati del mondo con i nostri stati di coscienza, che rappresentano punti di vista individuali nello scorrere degli eventi quotidiani. Ma di questo, come di altri aspetti, si occupano filosofi e neuroscienziati che ampliano il campo di studio ad ogni manifestazione della condotta umana, definibile nei termini di azione cosciente e talora come consapevolezza.
La consapevolezza che siano le sette di sera e che bisogna affrettarsi non interessa in sede formativa, se non nel senso dei gradi di attenzione che sono necessari nell’azione dell’apprendere.
Qui ci si riferisce solo lateralmente alla fenomenologia dei nessi neuronali implicati nella presa di coscienza. Perché la presa di coscienza è azione complessiva dell’organismo vissuta nei termini di percezione autoguidata.
La percezione può, come è normale in sede scolastica, essere indotta dal confronto interpretativo tra i pari, ma è (deve essere) sempre autoprodotta.

Esistono numerose teorie che dimostrano come l’esperienza sia contaminata dalle precomprensioni spontanee che giungono, nella prospettiva costruttivista, a canalizzare gli stessi modi con cui una persona anticipa gli eventi e a determinare i propri processi (Kelly, 1954). Altre teorie sottolineano come usualmente le nozioni implicate nella conoscenza siano assunte per incapsulamento dominio specifico (Karmiloff-Smth, 1995). Questo tipo di conoscenza, in specie, rappresenta una modalità certa di apprendere per stereotipi, non crea abilità di indagine e mortifica ogni dotazione biologica che presiede alla creatività.
Allora quest’esperienza “esige un esame specifico per liberarla dal suo status di credenza abituale” (Varela, Op.cit. ). La strategia degli obiettivi formativi (Aprile, 1991) sembra essere una delle risposte più pertinenti, per la sua centralità dell’interpretazione degli eventi e per i suoi previsti confronti collegiali.
Ma andiamo in ordine, sapendo che vi è in gioco una possibile testimonianza di una strategia di ricerca che vada a compensare questa enorme carenza della riflessione fenomenologica sull’emergere della coscienza.
Quello che si vuol proporre non è una conversazione da salotto, sia pure scientifica, ma un modo di contribuire a compiere una rivoluzione che – come ogni rivoluzione degna di tale nome- è prima di tutto una rivoluzione culturale.
E ogni buona rivoluzione culturale è, per dirla ancora con Maturana e Varela (1992), prima di tutto, una rivoluzione etica.
Insomma, si tratta di portare a termine un’operazione sempre interrotta e sempre rinviata che è all’origine dei fallimenti di ogni riforma della scuola e dei saperi da essa trattati.
Questa operazione è connessa alla riduzione fenomenologica sui saperi o, per dirla con parole semplici, ad un ritorno sistematico sulle conoscenze apprese per condurvi un’ulteriore indagine al fine di cogliere delle stesse conoscenze la dimensione dominio generale.
Per le teorie post-modulari della mente solo una sistematica reinterpretazione, meglio se collegialmente prodotta, può determinare il passaggio da una comprensione dominio specifico, ad effetto banalizzante, ad una dominio generale in cui si realizza una comprensione più raffinata, quella che è determinata da inferenze di alto livello.
Creare le condizioni per costruire nei processi formativi le strutture che connettono “in alto” significa rendere meno oscuro il problema della coscienza. Occorrono allora strategie per lo sviluppo di una pragmatica adeguata che nascano dalla ricerca localmente definita.
Quello che appare evidente come esito della ricerca internazionale è che non è possibile superare il muro di gomma degli attuali esiti, ripetitivi e rimbalzanti, che non riescono ad andare oltre una pura raffinata didattica disciplinare; che determina la formazione di ottimi conoscitori di nozioni, ma anche di persone di modesta capacità critica.
Così anche a queste forme avanzate della didattica sono ignote le strategie per il proprio sviluppo, ma anche della formazione della “persona cosciente”.

Gli apprendimenti, senza l’attivazione di una neurofenomenologia di come si comprende in maniera significativa, giacciono a livello della coscienza nucleare (Damasio, 2000), cioè a un primo livello di complessità che è la condizione per i futuri sviluppi.

È che tali sviluppi nelle prassi scolastiche non sono conosciute.
Quello che occorre è, per dirla dalla prospettiva di Varela, costituire “una comunità di ricercatori disposti a dedicarsi a questa modalità di ricerca” (Op.cit. ) Che siano in grado di costruire modelli di elaborazione di una pragmatica che aiuti la transizione degli apprendimenti dalla coscienza nucleare alla coscienza estesa, e cioè alla “capacità di essere consapevoli di una vasta estensione di entità ed eventi, vale a dire la capacità di generare un senso di prospettiva individuale, di possesso individuale e di azione individuale, in un ambito di conoscenze più ampio di quello che viene abbracciato nella coscienza nucleare” (Damasio, Op. cit. , p. 241).
Ci si muove in una prospettiva che rende estensibile la conoscenza mediante l’intelligenza con la sua possibilità di elaborare e manipolare soluzioni nuove.
La coscienza estesa è la condizione di fattibilità per l’esercizio dell’intelligenza.

Le nostre scuole non curano tali presupposti e non a caso registriamo –oltre tutto- una pericolosa assenza nella cura delle eccellenze, come emerge dalle comparazioni internazionali (Cfr. Ricerca Pisa).
“La coscienza estesa dipende dal trattenere nella mente, per intervalli di tempi considerevoli, le numerose configurazioni neurali che descrivono il sé-autobiografico; (Damasio, Op.cit. , p.242)” o meglio il senso di un sé che conosce (Id. , p.240) e conoscendo possa apprezzare i livelli evolutivi dell’etica.

Questa prospettiva non è più utopica, se nelle indicazioni dei Piani personalizzati delle istituzioni scolastiche riformate si fa esplicito riferimento non alle competenze da acquisire come nozioni ma alle nozioni che siano capaci di determinare le competenze per essere prima di tutto persona, intesa nella sua dimensione etico-sociale.
Dunque gli sviluppi di una pragmatica derivante dalle istanze implicite nella nascente neuroetica è non solo possibile ma forse non rinviabile se si tiene conto della sopra citata drammatica perorazione di Varela, e di quella più soft di Damasio.
Se poi si vuol considerare che le scimmie manifestano l’intero spettro delle inclinazioni morali, e che fin dalla più tenera età sono in grado di mettersi al posto di un altro individuo, anche in assenza di qualunque grado di parentela, appare come del tutto imperativo il dover por mano ad una impresa di ricerca o di azione che ci ponga un po’ più avanti, sul terreno etico, dei primati sopra citati.

E cercare di capire come mai, nonostante i nostri così evoluti progressi scientifici e tecnologici, la crescita etica sembra stagnante e impantanata nelle condotte della legalità formale, che equivale – nei sistemi di valori di Piaget e Kohlberg- poco più che ad un egocentrismo ben radicato in manifestazioni dell’inganno.
Con tali (dis)valori di riferimento la gestione della ricerca, dell’economia e della formazione nel nostro paese non può che permanere nelle logiche del gambero.

Quello che occorre è inserire cunei perturbanti nelle prassi stereotipate.
Non a caso Bruner (2002, p.26) è costretto ad ammettere che, nell’impossibilità di stabilire i connotati non equivoci della realtà, “è la consapevolezza delle prospettive alternative (..) quella che ci rende liberi di creare una visione correttamente pragmatica del Reale”.
Forse l’assunzione dell’atteggiamento fenomenologico da parte delle neuroscienze, con le prassi di arricchimento delle alternative, può conferire agli oggetti della propria conoscenza, nella fattispecie alla nascente neuroetica, la visione più produttiva.
In altri termini, si vuol dire che ci troviamo a fronte di un nuovo cominciamento e la “fenomenologia significa, (…) in primo luogo, ricerca del principio di conoscenza di ciò che si manifesta” (Armezzani, 1998, p.10).
Si propone dunque “un metodo di conoscenza che comprende l’apertura e l’interrogazione sul senso dei fenomeni” (Id. p.11) nell’ottica della ricerca scientifica secondo una concezione nuova di scientificità (Id.).
Insomma, le cose viste sono sempre qualcosa di più di ciò che di esse realmente e propriamente vediamo.
Forse la neuroetica, se consideratadall’ottica della neurofenomenologia, può conferire ai suoi oggetti lo spessore culturale e scientifico di cui abbisogna una così impegnativa trattazione di questioni etiche.
Alle implicazioni delle aree neuronali, pure opportunamente richiamate, fa sempre seguito la mente intera che è data dall’organismo che seleziona nel cervello in maniera inconscia le sue decisioni.
Se si tiene proprio conto – come afferma le Doux (2003, p.17) – che questa è “la regola, piuttosto che l’eccezione” c’è un gran lavoro da compiere per rendere adeguata l’azione formativa intenzionale, magari badando – come ancora suggerisce Le Doux- ad evitare di porre eccessiva enfasi sulla coscienza.
E tuttavia lo stesso Le Doux deve ammettere che benché i nostri pensieri, sentimenti ed azioni abbiano luogo in maniera automatica è solamente dopo che sono accaduti che, forse, diventano accessibili alla coscienza (Id. , p.16).
Dunque il rischio merita di essere corso, se l’altro rischio – quello di una comprensione monca, stupida, dominio specifico- è ben più grave per le giovani generazioni vincolate ai processi formativi istituzionali.
Forse bisognerebbe riflettere molto sulle teorie di Maturana e Varela circa le possibiltà di determinare una sorta di etica incorpata derivata, nella fattispecie, dalla natura degli accoppiamenti strutturali tra docente e discente nell’organismo scuola in cui ciascuno tende a realizzare la propria autopoiesi, i propri progetti di vita in atmosfere consensuali.
Forse partire da un metadomio di osservazione, quello delle finalità istituzionali, e provare a costruire una pragmatica del tipo descritto in “Ragioni di una neuroetica connessa ai processi formativi.”, può aiutare.

LeDoux (Op. cit. , p.352), riferendosi alle ricerche di Damasio, ricorda come l’informazione o la conoscenza emotiva condizioni la capacità di ragionamento, influendo sull’attenzione e sui processi della memoria di lavoro. Se questo è vero, per validazione da parte delle neuroscienze di una intuizione empirica precedente, bisognerà farsi carico di quelle scelte di strategia educativa che consentano di intercettare mirati nuclei critici dei saperi, entro i quali far vibrare le emozioni; anche attraverso il confronto interpretativo, divenendo questo stesso fatto produzione di sapere ermeneutico. Risiede in questo processamento del farsi della coscienza la possibilità di una costruzione personale della conoscenza, in cui le opzioni etiche si sottraggono alle pressioni ideologiche. L’apprezzamento dell’etica, pure orientata dai contributi delle neuroscienze, può più liberamete nascere da questa liberazione che gioca anche a tutela di non impossibili manipolazioni.

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Fortunato Aprile

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