Non più semplici luoghi di approvvigionamento o “macchine da guerra” deputate esclusivamente alla vendita, oggi i luoghi d’acquisto sono sempre più spesso spazi accoglienti e multifunzionali, in grado di veicolare in maniera innovativa il messaggio di marca e di trasformare l’atto del consumo in un’esperienza gratificante.
Un cambiamento di ruolo che si inserisce in un più ampio processo di ricerca da parte delle marche di soluzioni comunicative in grado di raggiungere in maniera efficace il moderno consumatore, caratterizzato da bisogni sempre più complessi e stratificati. La capacità di superare l’ottica monodirezionale di alcuni mezzi dell’advertising tradizionale e la possibilità di interagire sia con il mondo della marca che con gli altri consumatori, hanno portato le marche a considerare il punto vendita sempre più come strumento strategico all’interno del marketing mix, scandendo il suo sviluppo da point of purchase (luogo per il puro atto d’acquisto) a point of permanence (luogo da visitare ed ammirare) a point of meeting (spazio di relazione).
L’attenzione verso il punto vendita come mezzo dalle eccellenti potenzialità comunicative ha determinato la nascita di una serie di format, spazi ibridi di intrattenimento, cultura, spettacolo e informazione, in cui il vero e proprio atto di vendita viene paradossalmente relegato in secondo piano. Tra gli esempi più recenti (perlomeno nel panorama italiano) e interessanti è doveroso segnalare la formula dei temporary store, negozi “a tempo” che, a dispetto delle tradizionali regole della fidelizzazione, chiudono dopo solo poche settimane di attività, giocando con il potere di attrazione indotto da un’offerta ricca ma limitata nel tempo.
Arriva dalla Gran Bretagna questo nuovo concetto di “negozio temporaneo”. Un’idea di vendita che sempre di più sta conquistando i grandi brand desiderosi di distinguersi, focalizzare le proprie strategie per breve tempo su prodotti e servizi specifici, utilizzando location particolarmente rappresentative, inedite ed esclusive in grandi centri urbani e metropoli.
Hanno un target ben preciso da raggiungere e un’offerta unica e irripetibile intorno a cui nascono. A volte durano un mese e non si preoccupano di fidelizzare il cliente. Magari sono utili per lanciare dei nuovi prodotti, soprattutto quelli a tiratura limitata.
Lo scopo del Temporary shop è lo stesso di quello di una tradizionale campagna pubblicitaria, ma l’effetto finale è quello di dare la sensazione di partecipazione ad un vero e proprio evento.
Uno dei primi fautori degli spazi a tempo e artefice della loro risonanza mediatica, è la stilista Rei Kawakubo di Comme des Garcons con i suoi Guerilla stores ( il primo a Londra, poi in varie città tra cui Varsavia, Atene e Los Angeles ) non proprio nelle vie più ambite, anzi , generalmente al posto di negozi dimessi e senza neppure cambiarne l’insegna, ma da subito diventati luoghi di culto per modaioli e avanguardisti.
Nel 2000 Russ Miller, un ex public relations manager, fonda vacant, guerrilla store itinerante, sul principio che “ everybody’s been looking for something new in retail because it’s become really boring ( … ) and we kind of create a more inspiring environment”.
I negozi Vacant non restano aperti per più di quattro settimane. Ex magazzini, spazi non convenzionali. Rifiuto delle basilari regole del retailing (come ad esempio i cartellini dei prezzi), ma tanta musica, prodotti esclusivi, prgetti creativi indipendenti e serie limitate di marchi globali.
Costo dell’advertising equivalente a zero.
Un database mondiale di 1,6 milioni di affezionati. Poche e-mail e tanto passaparola.
I temporary store potrebbero quindi essere catalogati come una risposta alla spesso sterile creatività di molti brand. Sicuramente il guerrilla retailing è anche smart business: un nuovo business che permette ai brand di snodare il terreno su nuovi mercati, a costi bassissimi, riciclando vecchio merchandising ma con soluzioni creative più semplici e innovative.