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La Criminalità Femminile come Differenza tra i Sessi: Teorie Classiche

Le prime teorie[1] che ci spiegano i ‘perché’ del contrasto tra i tassi di criminalità maschile e femminile, contrasto certamente sorprendente, si basano su questo paradosso: poiché il delitto è stato trattato quasi esclusivamente dagli uomini nelle loro varie vesti e nei loro vari uffici (legislatori, giudici, poliziotti, studiosi, scrittori) e gli uomini, proprio in quanto uomini, guardano all’altro sesso con un’ottica esclusivamente maschile, l’altro sesso, e cioè la donna, ne ha ricevuto, in questo caso particolare, un non richiesto vantaggio. E i motivi di questa scarsa rappresentanza femminile fra gli autori di reato vengono imputati, insieme o separatamente, a:

– codici penali tolleranti verso alcuni comportamenti femminili,

–  il numero oscuro molto elevato di reati commessi da donne,

–  un diverso e più tollerante atteggiamento dei giudici nei confronti del ‘gentil sesso’,

–  il subdolo limitarsi della donna al ruolo di istigatrice o  mediatrice di delitti,

–  la prostituzione come surrogato dei reati contro il patrimonio. 

Vediamo su cosa si basano queste considerazioni, prendendo in esame ognuna delle cinque motivazioni.

Innanzitutto, la formulazione stessa dei comportamenti punibili legalmente: dal momento che i codici penali sono un prodotto del pensiero maschile, ecco che, consciamente o inconsciamente, tendono a punire quelle azioni che danneggiano alcuni interessi propri del mondo degli uomini, e viceversa a legittimare o perlomeno a giustificare altri comportamenti, considerati meno gravi, se non, addirittura, utili. Ad esempio, in alcune legislazioni si è ritenuto giusto non condannare penalmente la donna prostituta, mentre si giudicava condannabile l’adulterio, quando commesso dalla ‘moglie’.

La ‘matrice maschile’ dell’apparato della giustizia, inoltre, si esprime anche nei confronti della donna che ha compiuto un reato: benché rea, viene trattata dai soggetti preposti al controllo e al giudizio, con paterna benevolenza, con tolleranza e con indulgenza. 

Sulla base di queste considerazioni la criminalità femminile reale veniva valutata probabilmente al di sopra di quella apparente, e in misura notevolmente maggiore di quanto è presumibile avvenga per i delitti commessi da maschi.

Nella realtà, quindi, le donne sono più criminali di quanto di solito si pensi, ma i loro crimini rimangono in larga parte nascosti, o non denunciati.

Se alcuni degli elementi messi in evidenza dai sostenitori di questa tesi possono essere ritenuti validi, soprattutto con riferimento alla situazione sociale esistente nella prima metà del novecento, quando l’emancipazione femminile era ancora agli albori, la preoccupazione di volere per forza dimostrare una criminalità femminile ben maggiore di quanto appare dai dati statistici ha portato ad alcune incongruenze: prima fra tutte la presunzione di un minore rilievo del numero oscuro nella criminalità maschile. Ovvero del presunto ruolo della donna come “suggeristrice tra le quinte” e istigatrice dei reati. Molte, e difficilmente contestabili, sono le obiezioni che si possono opporre. Basti pensare a quanto avviene per quei delitti che si compiono nell’ambito familiare, e nei quali la donna appare più spesso come vittima e l’uomo come autore: maltrattamenti, reati sessuali, incesto, ecc. In questi casi la donna-vittima assume spesso un atteggiamento passivo, causato da un malinteso senso di vergogna e da un persistere di arcaici condizionamenti sociali, e il numero oscuro di questa tipologia di reati, di conseguenza, è pieno di ‘reati maschili’.

Laddove poi siamo in presenza di un’illegalità diffusa, come in Italia, presenza femminile esisterà di certo una quota oscura di criminalità femminile, ma, e al più, pari a quella maschile.

Secondo queste prime ipotesi, poi, la situazione di favore con cui è vista la donna che commette un reato proseguirebbe anche nella fase del processo, della sentenza e della detenzione.

La scarsa presenza femminile nelle carceri viene giustificata non solo con ordinamenti giuridici che consentirebbero alle donne un trattamento di favore, diminuendone le ipotesi di perseguibilità e di condanna, ma anche con un particolare atteggiamento “gentile” dei giudici verso la donna.

Ma gli autori che ci parlano di questa particolare discriminazione nei confronti delle donne ree, trattate con cavalleria e comprensione, non approfondiscono lo studio, trascurano il contesto sociale in cui è avvenuto il fatto, non ci rappresentano le cosiddette variabili di contesto: si tratta forse di ree avvenenti, dotate di sex appeal, oppure di donne-martiri, di donne con situazioni di disagio che inducono a pietà? Senza queste verifiche, la cavalleria dei nostri giudici rimane soltanto  un’ipotesi di cui non si può valutare la validità. Ad esempio, nel convegno su "Criminalità femminile tra stereotipi culturali e malintese realtà", svoltosi a Noto nel settembre 1995, è stato affermato che persisterebbe nelle forze di polizia e nell’autorità giudiziaria un atteggiamento discriminatorio nei confronti della donna, atteggiamento, ovviamente, a lei favorevole.

Sembra che queste tesi propongano modelli culturali che sono un riflesso di altre epoche, e considerazioni non più sostenibili, sicuramente obsolete, ma che continuano ad esercitare un fascino, forse a livello inconscio, sulle diverse componenti maschili della società.

Ancora attribuibile a una visione del mondo ormai superata è la terza ipotesi richiamata per gonfiare il dato della criminalità femminile apparente: la donna non comparirebbe tra gli autori di reato perché il suo ruolo è soprattutto quello di istigatrice degli uomini.

Il punto che più si vorrebbe sottolineare è che tutte le teorie qui brevemente richiamate sembrano muoversi su una base comune: se le donne criminali sono poche, c’è un motivo, e questo motivo è  da ricercarsi in situazioni che, di fatto, nascondono la criminalità femminile. Questo tipo di interpretazioni, inoltre, spesso non è esente da considerazioni di tipo biologico e/o psicologico,  invocate come cause, o concause. Insomma: scartata la ‘incapacità’ fisiologica, si è fatto ricorso a differenti modi di giustificare la differenza di comportamento criminale tra i due sessi, tutti però tendenti a una univoca tesi: le donne delinquono molto più di quanto risulti dai dati ufficiali.

Analizzando storicamente l’approccio alla criminalità femminile, dobbiamo anche notare come queste interpretazioni contengano una buona dose di ambivalenza.

Riprendiamo, ad esempio, quanto è stato detto da Hermann Mannheim[2], il quale dedica particolare interesse ai tassi della criminalità femminile in Inghilterra tra le due guerre, e alle possibili spiegazioni della netta differenza con i tassi di criminalità maschile. Mannheim cerca di dimostrare che le donne colpevoli di reati anche gravi sono trattate dagli ‘uomini giudici’ con una maggiore indulgenza, indulgenza non sempre giustificata. La consapevolezza di avere posto le donne in una condizione di netta inferiorità nella società precedente al XX secolo, ha portato a una sorta di ‘protezione legale’ nei loro confronti.

In effetti, molte donne sono state bruciate sui roghi perché accusate di ‘presunta stregoneria’, e può di conseguenza ritenersi possibile una successiva maggiore tolleranza, quasi potesse compensare tante e inutili efferatezze del passato.

Una trattazione esaustiva sull'argomento è in corso di stampa, in inglese, su International Review of Sociology. Il titolo italiano è Criminalità femminile e differenza di genere e l'autrice è Simonetta Bisi.


 

[1] C. Gilligan, Con voce di donna, etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano, 1987

[2] H. Mannheim, Trattato di criminologia comparata, Einaudi, Torino, 1975.

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Sara Squilloni

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