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Orientamenti Diagnostici e Prognostici in Soggetti Criminali con Disturbo di Personalità

Il dibattito scientifico sul tema dei disturbi di personalità e, in particolare, sul valore di malattia ad essi attribuibile ha sempre attratto l’interesse degli psichiatri determinando una sostanziale dicotomia tra due scuole di pensiero: da una parte la letteratura psichiatrica, soprattutto agli albori della psichiatria classica mitteleuropea, è ricca di contributi scientifici tendenti a valorizzare il disturbo di personalità ed includerlo, se non nella categoria delle malattie mentali propriamente dette, quantomeno nelle categoria delle forme attenuate dei disturbi mentali; dall’altra, a partire già dalla prima metà del 1800, per poi consolidarsi tale posizione attorno alla prima metà del 1900, la letteratura scientifica è ricca di contributi che tendono a svuotare di significato morboso i disturbi di personalità.
Prichard (1835) introdusse il concetto di “insanità morale” per descrivere quegli individui in cui, pur restando inalterate le operazioni intellettuali, apparivano profondamente sovvertite la condotta e l’affettività, in poche parole il carattere. Ma per Prichard gli individui con tali caratteristiche personologiche erano dei veri e propri malati di mente.
Koch (1888), invece, contestò la teoria di Prichard affermando che gli individui con i tratti descritti in modo tale da definirsi il concetto di insanità morale, non sono da ritenere malati di mente nel senso comune del termine. Egli coniò il termine di “inferiorità psicopatica” ed incluse gli insani morali, alla stregua dei nevrotici, in quel vasto territorio di nessuno che spazia dai confini della normalità psichica a quelli dello schiettamente patologico, specifico delle malattie mentali. Si deve poi all’opera di Kurt Schneider (1923) il progresso delle nostre attuali conoscenze concernenti i disturbi di personalità. Egli definì questi soggetti con il termine di “personalità anormali”, ovvero “variazioni o deviazioni rispetto ad un’ampiezza media delle personalità umane, ampiezza media che, però, non possiamo determinare con maggior precisione”. In un secondo momento, Schneider, partendo da queste premesse, puntualizzò in maniera più precisa che le personalità anormali vanno qualificate come “personalità psicopatiche : queste ultime sono personalità che soffrono per la loro anormalità o che a causa della loro anormalità fanno soffrire la società”. In questa definizione viene abbandonato il criterio biologico fino ad allora predominante circa la natura congenita dell’anomalia del carattere e viene introdotto il criterio sociologico, ripreso da Koch, secondo il quale nelle personalità anormali sono compresi i soggetti neuropatici che soffrono per la loro anormalità e gli psicopatici che, a causa della loro anormalità, fanno soffrire la società.
Partridge (1930) suggerì il termine “personalità sociopatica” per definire e caratterizzare gli individui psicopatici. Catalano Nobili e Cerquetelli (1953) in Italia adottarono il termine di “Personalità psicopatiche”. L’ American Psychiatric Association, nel 1952, adottò il termine di “disturbo sociopatico della personalità” o “sociopatia”. Ma, nonostante, il tentativo sempre più emergente nella letteratura psichiatrica di differenziare e caratterizzare i concetti di malattia mentale e di psicopatia, molti autori hanno continuato a considerare le alterazioni del comportamento sociale come derivabili da fattori genetici, biologici, congeniti, ovvero da condizioni prepsicotiche, quando non da forme larvate di epilessia (Kranz, Stumpfel, Riedel, Delgado, Ehrlich, Krogh, Hill, Watterson, Silvermann, tutti intorno agli anni ’50). Il dibattito intorno al modo di concepire l’essenza di disturbi di personalità è tutt’ora acceso: Siever et al. (1991) considerano i disturbi di personalità come forme attenuate di disturbi mentali, Cloninger (2000) e Widiger (2003), in sostanziale accordo con l’impostazione schneideriana, li inquadrano come varianti maladattative dei tratti di personalità presenti in ciascuno di noi. Altri autori, sottolineando la particolare complessità di alcuni disturbi di personalità, quali ad esempio il disturbo borderline, la cui definizione non a caso indica il limite di confine tra la norma e la patologia, propendono per l’inclusione di alcuni disturbi di personalità nell’ambito di forme psicotiche latenti.
Al riguardo già Bleuler si era reso conto dell’esistenza di quadri schizofrenici atipici nei quali i segni patognomonici della psicosi erano appena sfumati ed introdusse il concetto di “schizofrenia latente”. Zilboorg introdusse il concetto di “schizofrenia ambulatoriale, Ey di “schizonevrosi”, Hoch e Polatin di “schizofrenia psudonevrotica”. Il termine “borderline” (o “borderland”) fu utilizzato per la prima volta nel 1884 per definire una condizione che stava al limite tra la schizofrenia e la nevrosi ed in passato la diagnosi “borderline” indicava una fase latente, potenziale o di transizione della schizofrenia. Ma gli studi moderni (Schmideberg, Grinker, Kernberg, Bergeret, Gunderson) sono concordi nell’attribuire piena autonomia clinico-diagnostica agli stati borderline, i quali sono sempre esistiti, ancorché spesso non siano stati riconosciuti ed identificati se non come forme psicotiche fruste. Nelle prime due edizioni del DSM, sotto la spinta di Adolf Meyer che ha notevolmente influenzato la psichiatria americana introducendo il concetto di reazione per cui ogni manifestazione insolita o morbosa rappresenta un particolare tipo di risposta alle circostanze ambientali, sintomi psicotici, sintomi nevrotici e deviazioni della personalità venivano considerati come parti di un medesimo spettro psichiatrico ed è per questo che non fu necessario fino ad allora di proporre una gerarchia di relazioni significative per formulare diagnosi e prognosi dei disturbi di personalità. Nel DSM-III e soprattutto nel DSM-III-R i disturbi di personalità, che fino ad allora avevano già iniziato ad occupare una posizione preminente tra i raggruppamenti sindromici, diventano centrali rispetto all’intero schema della diagnosi. Per ciò che attiene alla definizione del concetto di disturbo di personalità, la prima edizione del DSM, scartato il termine di “personalità psicopatica”, termine che rimanda etimologicamente alla sofferenza dell’anima, scelse la definizione di “Disturbo di Personalità” per indicare ciò che fino a quel momento veniva indicato con il termine “personalità psicopatica”. Le prime due edizioni del DSM tendono a fare una distinzione tra tratti e struttura di personalità. In seguito questa distinzione viene abbandonata. Il DSM-III-R, infatti, definisce come “Personality traits” l’insieme di tratti o strutture della personalità intendendole come la stabile strutturazione del percepire e del pensare all’ambiente ed a se stesso. Ciò impone un metodo di valutazione che non può limitarsi alla semplice osservazione del comportamento, ma deve essere più ampio e considerare anche la sfera delle relazioni e dei pensieri, in maniera tale che la personalità possa essere valutata come un sistema, una organizzazione e se questa organizzazione si rivela inflessibile e maladattiva, determinando danno all’adattamento sociale ed occupazionale ed anche disagio soggettivo, solo allora si concretizza l’ipotesi del Disturbo di Personalità. Il DSM-IV TR divide i Disturbi di Personalità in “clusters” o raggruppamenti che, secondo criteri descrittivi, raccolgono i diversi disturbi e ciò sulla base di osservazioni cliniche. Ma non vi è uniformità di pareri sulla validità di tale suddivisione: molti studi censurano la posizione del DSM al riguardo sostenendo che la suddivisione in clusters è fondata su ipotesi intuitive piuttosto che su metodi empirici. Una prima suddivisione è quella che distribuisce i disturbi di personalità in tre clusters: A, B, C. Nel Cluster A rientrano i disturbi di personalità caratterizzati dal comportamento bizzarro ed eccentrico: Disturbo Paranoide, Disturbo Schizoide, Disturbo Schizotipico. Nel Cluster B rientrano i disturbi di personalità caratterizzati da comportamento imprevedibile ed impulsivo: Disturbo Antisociale, Disturbo Borderline, Disturbo Narcisistico, Disturbo Istrionico. Nel Cluster C rientrano i disturbi di personalità caratterizzati da ansia ed insicurezza: Disturbo Evitante, Disturbo Dipendente, Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Dunque vi sono, secondo il DSM-IV, 10 tipi di disturbo di personalità, descritti secondo i diversi criteri sintomatologico-clinici. In realtà il DSM-IV TR include un undicesimo raggruppamento: il Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato (NAS) , categoria riservata alle alterazioni della personalità che non soddisfano i criteri per alcun specifico disturbo, o a quelle condizioni caratterizzate da sintomi peculiari di più disturbi, o, ancora a quelle forme di disturbo di personalità non incluse nella classificazione, come, ad esempio il Disturbo Depressivo di Personalità ed Disturbo Passivo-Aggressivo di Personalità, quest’ultimo incluso nel cluster C del DSM-III-R, che, a scopo di ricerca, proponeva altri due disturbi di personalità supplementari: il Disturbo Auto-Frustrante ed il Disturbo di Personalità Sadico, rispettivamente connessi, sul piano teorico, ai concetti di masochismo e sadismo. D’altra parte, per quanto raccomandato ai fini di un sistema diagnostico e statistico standardizzato, il DSM non sempre si identifica per chiarezza espositiva e descrittiva sul piano tassonomico, vuoi perché del tutto sprovvisto di criteri nosografici impostati su fattori etiopatogenetici, talora irrinunciabili ai fini di un adeguato inquadramento diagnostico nel vasto terreno della patologia psichiatrica, vuoi anche per le non poche perplessità che suscita l’inquadramento di altre categorie diagnostiche che il DSM non include tra i Disturbi di Personalità, ma che, per certi aspetti sintomatologico-clinici, sono pur sempre affini ai Disturbi di Personalità, come, ad esempio i Disturbi del Controllo degli Impulsi, i Disturbi Correlati a Sostanze, i Disturbi della Condotta Alimentare, i Disturbi Dissociativi dell’Identità (ovvero il Disturbo da Personalità Multipla, secondo le precedenti edizioni del DSM), le Parafilie, ecc., tutte queste categorie diagnostiche che il DSM, includendo nell’Asse I (Disturbi Clinici o altre condizioni che possono richiedere attenzione clinica), distingue nettamente dai Disturbi di Personalità, inclusi invece, al pari del Ritardo Mentale, nell’Asse II. Senza neppure considerare che alcuni Disturbi di Personalità, in altri sistemi internazionali di classificazione delle malattie mentali (ad esempio l’ICD) vengono inclusi in categorie diagnostiche diverse dai Disturbi di Personalità: ad esempio il Disturbo Schizoide di Personalità, compreso nell’Asse II riservato dal DSM ai Disturbi di Personalità ed al Ritardo Mentale, è incluso nel capitolo dei disturbi schizofrenici dall’ICD, che lo definisce “schizofrenia latente”. Ebbene, tutto ciò premesso circa la non univoca e tuttora dibattuta nosografia psichiatrica, si può ben comprendere quali difficoltà possa incontrare lo psichiatra forense nell’approccio al reo-infermo di mente ai fini della valutazione dell’imputabilità, settore applicativo ove dottrina giuridica e dottrina psichiatrica non sempre si muovono in maniera equilibrata partendo da premesse che talora appaiono impostate su metodi e criteri non reciprocamente condivisibili. Ciò si verifica soprattutto nell’ambito dei Disturbi di Personalità. Ad esempio, la giurisprudenza italiana, richiamandosi all’impostazione schneideriana, per circa cinquant’anni ha sempre negato ai disturbi di personalità la dignità di “infermità di mente”, intesa nel senso medico-legale proprio dell’indirizzo giurisprudenziale, laddove acquisisce valore di malattia solo quell’infermità di natura ed entità tale da escludere, o grandemente scemare, la capacità di intendere e/o di volere, ovviamente in stretta relazione causale, cronologica, modale, qualitativa e quantitativa tra la patologia da un lato e la condotta reato dall’altro lato. Ma già nel 1959 De Marsico aveva denunciato come le modalità per negare il valore di malattia ai disturbi
di personalità (o personalità psicopatiche, come allora venivano definite tali condizioni psicopatologiche) fossero caratterizzate da “estremo semplicismo”. La maggior parte delle sentenze della Suprema Corte, negli anni ’60-’70, sulla spinta di una psichiatria ancorata a modelli ed indirizzi teorici di stampo kraepeliniano e schneideriano e poco incline al rinnovamento, poneva l’attenzione sullo scarso valore di malattia in senso medico-legale delle cosiddette “personalità psicopatiche” intese, secondo l’impostazione schneideriana, come varianti del modo di essere al mondo, che pur discostandosi dal comune essere, percepire, rapportarsi, quasi mai si concretizzano nel loro declinarsi in quel comportamento di rottura peculiare delle condizioni psicotiche nell’ambito delle quali il comportamento reato si qualifica per caratteristiche cliniche di estraneità, di perdita del contatto con la realtà, di assurdità, di incomprensibilità sul piano della logica. Ora, se è pur vero che solo in certi processi psicotici caratterizzati da estrema gravità si verifica uno stacco dalla realtà, una frattura dell’Io, un sovvertimento del modo di essere al mondo rispetto alle abituali direttive del soggetto, in poche parole quel “quid novi” o “quid pluris” che i giuristi richiamano solitamente per qualificare la condotta-reato dello psicotico come derivata o ispirata direttamente dalla malattia mentale, vi sono comunque delle condizioni nell’ambito delle cosiddette “Personalità Psicopatiche” di vecchia memoria, o nei “Disturbi di Personalità” secondo la definizione corrente, che richiedono particolare attenzione, non solo dal punto di vista dell’assistenza e della sorveglianza clinica, ma anche dal punto di vista dell’osservazione psichiatrico-forense. Basti, al riguardo rammentare che sul piano statistico la maggior parte dei ricoveri in regime di trattamento sanitario obbligatorio nei servizi di diagnosi e cura territoriali, sembra essere dovuta, secondo le più recenti stime, a crisi psicotiche in pazienti affetti da disturbo di personalità. D’altra parte è nella natura stessa del disturbo di personalità, del suo decorso clinico, nella instabilità delle relazioni e nelle oscillazioni del tono dell’umore che caratterizzano la sintomatologia di tale disturbo, che è insito sempre il rischio potenziale di uno scompenso psicotico, seppure transitorio e di breve durata, fermo restando che una diagnosi di disturbo di personalità talora nasconde una diagnosi più severa giacchè un disturbo psicotico può essere sottostimato ed inquadrato erroneamente come disturbo di personalità, così come, del resto, un disturbo di personalità può essere sopravvalutato ed essere scambiato per un disturbo psicotico. Anche dal punto di vista psichiatrico forense, sembra esservi una prevalenza della diagnosi di disturbo di personalità rispetto a quella di disturbo psicotico in relazione alle condotte-reato oggetto di valutazione in ambito di imputabilità, se non, in diversi casi, di una co-morbidità tra un disturbo psicotico in Asse I ed un disturbo di personalità in Asse II, o tra un disturbo psicotico ed un disturbo da abuso e da dipendenza da sostanze. Inoltre, è soprattutto nell’ambito del Cluster A (Disturbo Paranoide, Disturbo Schizoide e Disturbo Schizotipico), laddove i disturbi di personalità si caratterizzano per la bizzarria e l’eccentricità affini ai disturbi psicotici rispetto ai quali la diagnosi differenziale spesso non è affatto agevole, e del Cluster B (Disturbo Antisociale, Disturbo Borderline, Disturbo Istrionico, Disturbo Narcisistico), laddove campeggia l’impulsività e l’imprevedibilità che rende detti disturbi, particolarmente quello borderline e quello narcisistico – assai meno quello antisociale e quello istrionico – anch’essi affini alle condizioni psicotiche o comunque come forme psicotiche fruste se non come fasi intercliniche nell’ambito di una condizione psicotica latente e decompensata, che lo psichiatra forense, chiamato ad esprimere un parere sullo stato di mente del reo nel momento della commissione del fatto-reato, deve porre la massima attenzione sul rapporto di causalità tra patologia mentale e condotta-reato. Massima attenzione lo psichiatra forense deve porre anche in relazione al Disturbo di Personalità NAS, disturbo nell’ambito del quale proprio la mancanza di segni specifici e patognomonici di uno specifico disturbo di personalità da un lato, ma la presenza di molteplici e svariati segni suggestivi di più disturbi di personalità dall’altro lato, può rendere particolarmente grave il Disturbo di Personalità NAS, con non poche problematiche di diagnosi differenziale, tanto più se detto disturbo si presenta e manifesta con tratti di tipo passivo-aggressivo o tratti di tipo masochistico, o ancora tratti di tipo sadico. Proprio nell’ambito di questo disturbo di personalità, le cui caratteristiche sintomatologico-cliniche non sono affatto definite, mescolandosi in esso molteplici aspetti propri di più disturbi di personalità, se non tratti che rimandano talora a forme psicotiche, vi è da chiedersi se la nosografia nord-americana non abbia reso ancor più complicata la diagnostica psichiatrica: ad esempio, di fronte ad un disturbo di personalità NAS così diagnosticabile oggi in relazione ai criteri DSM, quanti psichiatri, non ancora pronti a recepire l’indirizzo nosografico propugnato dalla associazione degli psichiatri americani ed ancorati invece all’approccio nosografico della psichiatria classica europea, negli anni ‘50-‘60 ed anche negli anni ‘70-’80 – per non parlare di quegli psichiatri che ancora oggi tendono a rifiutare gli schematismi del DSM – considererebbero psicotici i pazienti che il DSM inquadra come Disturbo di Personalità NAS?
Così come, del resto, suggeriscono anche l’ICD-9 e l’ICD-10, per quelle forme di disturbo di personalità quali lo schizoide o il paranoide o lo schizotipico. Dunque, se c’è un disturbo di personalità in cui la diagnosi differenziale tra una vera e propria malattia mentale o un disturbo psico-comportamentale che sembra rimandare ad un disordine psicopatico è particolarmente difficile e delicata tanto da non essere unaninemente condivisa nei pareri clinico-diagnostici, è proprio quella relativa al Disturbo di Personalità NAS; raggruppamento diagnostico nell’ambito del quale, talora si tende ad includere forme di disturbo di personalità spurie o anche forme psicotiche altrettanto spurie. Orbene, tornando a discutere del valore di malattia in senso medico-legale dei disturbi di personalità, alla luce di tali premesse cliniche, e rammentando che la psichiatria clinica nel corso del suo secolare travaglio ha progressivamente allargato i confini del concetto di infermità passando da una posizione rigidamente organicistica di stampo kraepeliniano basata sulla presunzione di un substrato organico all’origine della malattia mentale, ad una posizione più elastica fondata su ipotesi ora psicodinamiche, ora biologiche, ora sociali, fino all’attuale affermarsi del cosiddetto modello integrato inerente la multifattorialità patogenetica dei disturbi mentali, è evidente che anche il versante giurisprudenziale non poteva rimanere ancorato alle sentenze della Suprema Corte che negli anni ’60-’70 tendevano a disconoscere il valore di malattia in senso medico-legale a quelle condizioni nelle quali mancava il substrato organico. Sicchè, in astratto, ogni condizione capace di interferire sulle capacità di intendere e di volere di un soggetto, sia essa di natura fisica o di natura psichica, per la Cassazione può essere rilevante ai fini dell’esclusione dell’imputabilità (vizio totale) o, quantomeno, della affermazione del principio della semi-infermità (vizio parziale). Al riguardo sono da sottolineare diverse sentenze della Cassazione, tra le quali, soprattutto due: 13 gennaio 1986: “…qualunque condizione morbosa, anche se difficilmente caratterizzabile sul piano clinico, può integrare il vizio di mente, sempre che presenti connotazioni tali da escludere o diminuire le normali capacità intellettive e volitive…”; 29 settembre 1986: “…accanto alle condizioni di accertata malattia di mente, ne esistono altre le quali non integrano il concetto medico-legale specifico di malattia, ma costituendo varianti anomale dell’essere psichico, sono ricondotte nella categoria medico-legale generica dell’infermità di mente…”. Ed è proprio in relazione alle più recenti acquisizioni scientifiche in tema di disturbi di personalità, soprattutto in quei quadri psicopatologici, come il Disturbo Borderline, che sembrano caratterizzarsi prevalentemente per una disregolazione impulsiva, specie all’interno delle relazioni interpersonali maggiormente segnate dall’affettività, con conseguente difficoltà cognitiva ad operare una corretta valutazione di sé nel rapporto io-altri – disregolazione impulsiva che talora assume valore di infermità piena anche se alcuni autori (Waltz, 1994) ritengono che nei pazienti borderline siano più frequenti i comportamenti violenti autodiretti rispetto a quelli eterodiretti, i quali ultimi sembrano più rivolti alle cose che non alle persone – che la classica impostazione giurisprudenziale è stata recentemente modificata dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Penali Riunite del 25 gennaio-8 marzo 2005 (Cass. 9163/05, Relatore Marzano) nella quale si afferma esplicitamente che: “…Deve […] ritenersi che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita un’attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea a escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente…”. Sebbene sia da sottolineare come detta sentenza specifichi che i disturbi di personalità possano acquisire valore di infermità in senso medico-legale solo “…ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere…” e sempre che sia identificabile una situazione “…di assetto psichico incontrollabile e ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi…”, nonché sia identificabile un preciso nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto reato “…che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo…”. A ben vedere, la ratio della recente sentenza della Cassazione è meritevole di plauso da parte degli psichiatri forensi giacché rappresenta quell’auspicato spirito innovativo del punto di vista giurisprudenziale rispetto alle problematiche insite nel modo di porsi di fronte alla malattia mentale; modo di porsi che gli psichiatri, attraverso un secolare travaglio irto di crisi culturali ed ideologiche, ma anche ricco di acquisizioni scientifiche sul piano metodologico, clinico, terapeutico e prognostico, sono riusciti a modificare fino alla realizzazione di una psichiatria dal volto umano concretizzatasi con la grande riforma legislativa del 1978 in tema di assistenza al malato di mente che ha smantellato l’istituzione manicomiale ed ha messo in crisi il concetto di pericolosità sociale del malato di mente. Era quindi necessario che anche il punto di vista giurisprudenziale non rimanesse ancorato all’impostazione della dottrina psichiatrica della prima metà del secolo scorso, ma si adeguasse agli attuali modelli del pensiero e dell’agire psichiatrico. Del resto non solo la psichiatria forense italiana (Fornari, 1989; Ponti, 1994; Merzagora Betsos, 1999; Bandini et al., 2000; Nivoli, 2002), ma anche quella americana (Appelbaum, 2000), a proposito del valore di malattia in senso medico-legale, ovvero del rapporto di causalità tra patologia e condotta reato, sono entrambe orientate ad uniformare lo spirito, il metodo, l’approccio e la criteriologia del perito che devono essere sempre ispirati non solo dal rigore scientifico, ma anche dalla prudenza nell’uso di diagnosi categoriali e schematiche come quelle suggerite dal DSM, in un settore in cui la necessità di fornire un parere sulla incidenza della patologia sul comportamento reato, richiede una valutazione a più largo respiro, più elastica e meno irrigidita dagli schemi, più aperta a valutare il rapporto tra patologia mentale e condotta-reato attraverso la storificazione della vita, delle relazioni, del modo di essere al mondo del soggetto autore di reato.

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Alessia Micoli

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