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Comportamento

La Psiche dell’Uomo al Volante

La psiche e l’automobile, un rapporto ancora da studiare a fondo, ma sul quale già alcuni esperti si stanno interrogando da tempo. Per l’impegno, le energie, la dedizione che vi si dedica, la quattroruote è uno degli oggetti più coinvolgenti della nostra giornata. Che sia utilizzata per lavoro o per svago, da soli o con la famiglia, determina sollecitazioni e pulsioni e fa emergere la personalità profonda di ciascuno di noi.
‘Autoritratto’ ha intervistato su questi temi un esperto italiano, lo psicologo Francesco Albanese, presidente di PsicoLab, laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia che dedica studi e ricerche proprio sul rapporto tra uomo e automobile.
Le attività del centro sono visibili sul sito www.psicolab.net.
Dottor Albanese, volendo storicizzare il tema, com’è cambiata la psicologia dell’automobilista nel corso degli ultimi decenni? In altre parole, la “dimensione” della guida ha subìto un mutamento di qualità, atteggiamento o valore?
“La psicologia insegue la tecnologia, e viceversa. Sarebbe come dire che la psicologia dell’essere umano risente molto dei fattori culturali, sociali e dei suoi prodotti, che regolano il mondo che lo circonda. Ma allo stesso tempo, il mondo non è altro che la concretizzazione di uno psichismo in continuo mutamento e il progresso tecnologico ne è uno dei tanti risultati. Sicuramente, dai tempi in cui si cominciavano a vedere per le strade le prime Fiat 500, le cose sono molto cambiate. Tra gli anni ‘50 e ‘70 comprarsi l’auto era una grande conquista, ma allo stesso tempo le esigenze di allora erano molto diverse da quelle di oggi. Basti pensare che fino a metà anni ‘70 le persone che nei mesi estivi andavano ‘in ferie’ si contavano sulla punta delle dita. Se prima era una conquista avere l’auto, adesso lo è avere l’auto più bella, più costosa, più veloce”.
Un tema sempre d’attualità è la crescente aggressività degli automobilisti…
“Il traffico sicuramente gioca il suo ruolo fondamentale. La dimensione psicologica che più ne risente è quella della frustrazione: non è altro che il vissuto spiacevole che consegue dall’essere impediti nel raggiungimento di uno scopo prefissato. Il traffico cittadino è un esempio sensazionale di condizione frustrante: auto ovunque, ci impediscono di muoverci nei tempi e nelle direzioni che desideriamo. E la frustrazione porta inevitabilmente all’aggressività, che è una naturale reazione automatica dell’organismo, con la funzione di eliminare l’ostacolo che ci impedisce la piena libertà.
Da alcuni l’auto è vissuta, poi, come un’estensione del proprio corpo e rappresenta per costoro un simbolo fallico. Per dirla con Freud, un estensione del proprio pene: più l’auto è grossa, più siamo potenti”.
Molto spesso al volante si cambia atteggiamento mentale. Persone abitualmente pacate assumono atteggiamenti aggressivi…
“Chi dall’interno di un carro armato non sarebbe tentato di sparare almeno un colpo? Le sensazioni di protezione, di inattaccabilità e di anonimità che si potrebbero vivere all’interno di un carro armato sono simili a quelle vissute da alcuni conducenti alla guida della propria auto. Quando questo accade a persone abitualmente pacate, c’è da chiedersi se nella vita di ogni giorno lo siano realmente o se stiano semplicemente tenendo a freno i propri istinti, istinti che poi escono allo scoperto nel contesto di guida, utilizzandolo come naturale valvola di sfogo per evitare di esplodere, incanalandovi le frustrazioni soffocate in ogni altro ambito della vita: lavoro, famiglia, amicizie, sogni irrealizzabili. Quello della guida è uno dei tanti contesti ritenuti ‘sicuri’ da alcuni guidatori, in cui si concedono di dare sfogo alle proprie frustrazioni. Per questo motivo, educare sé stessi a una guida serena, equivale a educare se stessi a rivoluzionare il sistema di valori e di priorità della propria vita, a porsi obiettivi e priorità diverse, generalmente più accessibili”.
La velocità è da sempre un’esperienza inebriante. Perché?
­“Essenzialmente perché non appartiene all’essere umano. Ogni organismo vivente è stato progettato dalla Natura per andare ad una determinata velocità. Ogni volta che ci si spinge a velocità maggiori, l’organismo subisce una sollecitazione che lo pone in uno stato di allerta. Chi ama le alte velocità si spinge a velocità estreme proprio per porre il proprio fisico nella condizione di allerta, in cui l’elevata attivazione fisiologica dà la sensazione di essere vivi. Questa dinamica è stata studiata dagli psicologi, meritandosi l’etichetta di ‘Sensation Seeking’ (alla ricerca di sensazioni), ed è riscontrabile in quella tipologia di persone che se non si sottopone a continue prove, a continue situazioni inebrianti, adrenaliniche potremmo dire, si sente morire”.
L’auto è sempre più un concentrato di servizi che colloquiano col mondo esterno (navigatore, iPod, cellulare, ecc.). Da strumento di mobilità a strumento di comunicazione. Quali conseguenze sulla psiche e l’attitu­dine alla guida?
“L’uomo è destinato a trascorrere sempre più tempo all’interno della propria auto, ed ogni comodità è più che legittima. Talvolta per attraversare una grande città sono necessarie anche un paio d’ore e non necessariamente si deve trascorrere questo tempo a far penitenza. Il cellulare ci permette di comunicare un eventuale ritardo, o di allietarci con la compagnia di una voce amica, l’autoradio ci riporta a momenti piacevoli trasmettendo la nostra canzone del cuore ed il navigatore ci aiuta a non perderci. Tutti strumenti che partecipano in maniera specifica a facilitare o ad allietare la guida. I problemi nascono nel momento in cui si ricerca l’mp3 nell’iPod, o si programma il navigatore, o si scrive l’Sms in condizioni di traffico fluido, o in autostrada. La pratica di guida è il risultato della coordinazione di un insieme di attività complesse, tra le quali l’attenzione gioca un ruolo principale. Durante la guida non ci si possono permettere distrazioni, soprattutto a velocità elevate. Ben vengano dunque gli accessori alla guida, ma da maneggiare con cautela”.
Lei ha scritto del rapporto tra auto e anziani. Cioè dell’insofferenza che sovente prende di fronte alle incertezze di un anziano alla guida. Ci parla di questo tema?
“Molti guidatori non tollerano di essere limitati nella velocità di guida. Se dal loro punto di vista l’auto che li precede viaggia ad una velocità inferiore rispetto a quella che loro stessi avrebbero scelto, vanno su tutte le furie. Non è raro trovare un anziano alla guida di queste auto che vanno piano. Ma l’anziano non può che andare piano, dato che, con l’età, le capacità psicofisiche subiscono un naturale decadimento. La pratica di guida consiste essenzialmente nell’elaborare un certo numero di informazioni di tipo tattile (su cosa sono posati le mie mani ed i miei piedi in questo momento?), visivo (vedo che il semaforo è rosso, oppure, c’è un’auto alla mia destra) ed acustico (qualcuno ha suonato il clacson dietro di me, oppure, sento il rombo di un motore alla mia sinistra); nel prendere successivamente un certo numero di decisioni in un tempo limitato (devo frenare subito!, oppure, devo svoltare a destra); infine nell’attivare programmi motori, tra cui i riflessi, (premere il freno col piede, oppure, girare il volante) per compiere le azioni che si sono scelte di compiere. Generalmente, col passare degli anni, tutti questi processi subiscono un rallentamento, e l’anziano guidatore si sente come sovraccaricato da questa enorme quantità di stimoli e di compiti da assolvere, il che lo porta a compensare riducendo la velocità”.
Si è celebrato in TV l’anniversario del celebre film “Il Sorpasso”.
Quanto pesa l’informazione nella costruzione di comportamenti deviati alla guida di un’auto?
“L’informazione ha un gran peso, perché funziona da modello. Ad esempio, osservare scene di un film in cui il protagonista sfreccia a zig zag nel traffico, schivando i veicoli che gli vengono incontro, restituisce l’immagine di una persona abile alla guida, modello in cui ci si può facilmente identificare, funzionando così da esempio e portandoci a trascurare il fatto che si tratti di una finzione: se lo fa lui, lo posso fare anch’io. Se poi il nostro protagonista finisce in una scarpata, con buone probabilità questo particolare viene trascurato, perché dissonante rispetto all’immagine di abile guidatore che abbiamo interiorizzato attraverso l’identifica­zione con lui”.
Uno dei maggiori problemi in tutta Europa è l’imprudenza dei giovani alla guida delle auto, specie il sabato sera, quando all’uscita dalle discoteche si mettono al volante in condizioni di lucidità precarie. Al di là degli aspetti patologici dovuti all’assunzione di droghe o alcol, quale impostazione mediatica ed educativa andrebbe assunta per limitare il fenomeno?
“Negli ultimi anni, per fronteggiare l’ormai noto fenomeno delle stragi del sabato sera, sono state adottate campagne pubblicitarie basate sulla sensibilizzazione (Cerca di volerti bene, perché ti puoi fare male), o più di impatto, basate sul sentimento di paura che può nascere nel giovane ipotetico guidatore della notte (Guarda! Vuoi finire così? più l’immagine di un volto sfigurato). Ma queste campagne si preoccupano più del come che del perché. In un modo o nell’altro ci dicono: questo non va fatto perché c’è il rischio che succeda quest’altro. Bene, ma non viene chiesto: perché fai questo? È lì il nocciolo del problema, e nessuna campagna pubblicitaria potrà mai rappresentare una soluzione esaustiva, perché si occupa (e non può che occuparsi) degli effetti di cause che non può affrontare, si occupa della manifestazione di un disagio che ha radici altrove, non sul volante. Per questo motivo, credo che sia necessaria una generale riformulazione dei valori, cosa che richiede la necessità di andare molto più in profondità del circoscritto tema della guida. L’incidente stradale è un incidente di percorso, è l’esito tragico di un viaggio solitario. Assistiamo sempre più, attraverso gli anni, ad una pervasiva svalutazione delle relazioni, alla crescita dell’individualismo, alla rincorsa di miti irraggiungibili, alla fuga da sballo. Tutti surrogati che stanno prendendo il posto di valori come la famiglia, l’amicizia (quella vera) o la cooperazione altruistica. E l’essere umano da solo non può vivere, ma è così che si sente sempre di più, di generazione in generazione, alimentando così, più o meno consapevolmente, quella che Freud chiamava Thanatos, pulsione di morte”.
Per concludere: la psicologia clinica si occupa di pazienti il cui comportamento alla guida è considerato patologico? Ci sono casi in tal senso?
“La Psicologia Clinica si occupa del malato. Klinos, nell’antica Grecia, era il letto sul quale si chinava il medico per visitare il paziente. Il comportamento alla guida è studiato invece da quella branca della psicologia che ha l’evocativo nome di Psicologia del Traffico, o Psicologia Viaria, anche se questa è più attenta ai processi di guida, alle motivazioni ed alle reazioni, che alla patologia. Dato che ipotetiche modalità patologiche di un individuo sono aspetti che tendenzialmente lo caratterizzano, al di là del contesto, la patologia è generalmente lasciata alla psicologia clinica, salvo alcune eccezioni. Una di queste è rappresentata dalla rabbia alla guida. Negli Stati Uniti lo psicologo Jerry L. Deffenbacher e i suoi colleghi della Colorado State University hanno messo a punto questionari strutturati in grado di misurare la quantità di rabbia manifestata durante la guida, riuscendo a discernere quali guidatori tendessero ad arrabbiarsi maggiormente durante la guida, da quelli caratterizzati da una rabbia più pervasiva, compagna di ogni momento della giornata. Al di là della curiosità che viene così soddisfatta, informazioni simili risultano utili agli psicologi per pianificare un eventuale trattamento terapeutico mirato alla riduzione della rabbia alla guida”.

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