La capacità di affrontare un palcoscenico è ampiamente riconosciuta come una delle difficoltà maggiori per lo sviluppo di una carriera concertistica. Dalla letteratura inerente alla psicologia del concertismo spesso si osserva come il campione di riferimento delle ricerche nel settore sia costituito da musicisti in erba o volenterosi studenti universitari a cui vengono impartite lezioni musicali prima del test in cambio di crediti per gli esami o un compenso economico. Anche quando vengono coinvolti musicisti professionisti, il test conclusivo viene effettuato spesso in condizioni rigidamente controllate, necessarie sì per una ricerca sperimentale ma ben lontane da quello che potrebbe essere il reale setting di un concerto. Interrogare chi fa dell’esperienza concertistica la sua professione diviene quindi di cruciale importanza nel supportare o meno alcune conclusioni accademiche e ritengo dovrebbe essere parte attiva del processo di avanzamento di conoscenze in questo ambito.
In data 13 Settembre 2007 ho incontrato il Maestro Florindo Baldissera presso la splendida cornice di Palazzo Pisani, sede del Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia. Florindo Baldissera ha ottenuto nel 1985 il diploma in Chitarra Classica con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio di Mantova. La sua attività concertistica come solista e in varie formazioni cameristiche lo ha portato a suonare in numerose città, come Milano, Venezia (Teatro La Fenice), Firenze (Teatro Sangallo), Bologna, Padova (Auditorium Pollini), Palermo, Budapest (Vigado Music Hall), Berlino, Düsseldorf, Francoforte, Dresda, Stoccarda, Vienna, Zurigo e New York. Ha registrato per la RAI, per la Sud-Deutsches Rundfunk di Stoccarda, per il 1° e 2° canale televisivo ungherese e per altre emittenti radiofoniche europee; attualmente è docente di Chitarra presso il Conservatorio di Venezia e tiene regolarmente masterclass e corsi di perfezionamento musicale.
Prendendo spunto dai risultati di alcune ricerche sulla psicologia del concertismo, ho affrontato con il Maestro alcune tematiche relative ai fattori mentali che possono intervenire durante un’esecuzione pubblica. Riporto di seguito i momenti più significativi della nostra conversazione:
Maestro, innanzitutto una domanda molto generica… perchè secondo lei commettiamo degli errori in pubblico? Quali sono le cause principali in base alla sua esperienza?
Gli errori in pubblico si commettono, in primo luogo, perchè non si è preparati ad affrontare la prova, l’errore più elementare è quindi quello di aver sottovalutato il brano che si deve eseguire: si pensava che l’esecuzione corrispondesse alla sensazione positiva avuta a casa mentre sul palco si scopre invece che il brano è molto più difficile di quello che si credeva, perchè noi siamo più tesi, l’acustica è diversa e lo strumento sembra più “duro”; in genere, quindi, è impreparazione di chi suona. Poi ci possono essere motivi anche di tipo psicologico, ma credo che il primo errore sia quello di aver sottovalutato la portata di quello che si va a fare… questo vale ad ogni livello, dagli allievi dei primi anni sino ai concertisti.
Quali fattori possono danneggiare la memoria durante un concerto?
La memoria è la prima cosa che si spezza quando non si è sicuri. Le mani ti possono tradire, ma lo fanno molto meno di quanto possa fare la memoria, che è molto più difficile da verificare. Quando si prova tranquilli tra le proprie pareti domestiche non si è sotto pressione e si riesce ad essere lucidi. Per lo stesso motivo per cui quando parliamo in pubblico non è come quando parliamo tra amici, quando suoni in concerto sei il punto di riferimento di un’ampia sala. Ciò innesca un meccanismo di tremendo impatto dal punto di vista psicologico e la difficoltà più ardua è riuscire a concentrarsi. C’è chi dispone di questo dono, ma molti altri non hanno tale predisposizione e in questi casi l’elemento più fragile è proprio la serie di connessioni che ti portano a suonare, cioè la memoria musicale. Ti fai distrarre dal contesto e l’ultima cosa a cui pensi è “suonare”. In quel caso, se hai una solida conoscenza del brano lo esegui lo stesso (anche se non sarai tu che l’hai suonato ma le tue associazioni automatiche di gesti), ma se non disponi di tale solidità mnestica, l’impatto col pubblico può far saltare tutto!
Vi sono numerose ricerche sulle componenti caratteriali che faciliterebbero una carriera concertistica (Kemp, 1996; Shuter-Dyson, 2006). Ritiene che vi sia una specifica “personalità del musicista”?
No, secondo me chiunque può fare il musicista, il carattere dei musicisti è molto vario: io conosco concertisti dolcissimi come altri piuttosto aggressivi, musicisti affidabili ed altri non; forse una delle doti molto importanti è il narcisismo (anche se non so se possa definirsi una dote!), in quanto porta al piacere di esibirsi e crea una spinta per studiare.
Anthony Kemp (1996) ad esempio, psicologo dell’università di Reading, afferma che il musicista tipico sia prevalentemente un “impavido introverso”. L’introversione sarebbe un aspetto, a suo avviso, necessario per la prassi concertistica, perché lo studio musicale richiede, in primo luogo, un sacrificio di ore dedicate alla risoluzione di passaggi manuali e non, che determina spesso un inevitabile isolamento durante la pratica. Al tempo stesso, al musicista è necessaria una dose di coraggio, di impavidità, senza la quale l’approccio al palco risulterebbe negativamente influenzato. Quanto si sente di condividere queste affermazioni sulla base della sua esperienza pratica?
Personalmente non condivido per http:\\/\\/psicolab.neta questa affermazione. Forse potremmo fare una statistica e vedere che molti musicisti rispondono a questa tipologia, ma secondo me quelli che sono riusciti a sfondare veramente sono quelli che non sono così! Per suonare in pubblico bisogna essere estroversi, l’introversione crea troppi problemi; è vero che ad esempio un pianista come Glenn Gould aveva di questi problemi caratteriali ed è diventato un pianista famosissimo in tutto il mondo ma – alla fine – ha suonato per 9 anni, dopodiché si è ritirato dalle scene. Era sicuramente un grande musicista che rientrava nella definizione di Kemp che lei mi ha appena esposto, ma era assolutamente non adatto a calcare le scene: viveva ciò alla stregua di un’impresa atroce. Dopotutto se uno vive con difficoltà l’esecuzione pubblica finirà per non voler più fare questa carriera.
Al riguardo, sappiamo come la motivazione costituisca una delle componenti principali nella carriera concertistica (McCormick & McPherson, 2003). Secondo lei vi possono essere delle circostanze in cui questa possa costituire un fattore negativo che interferisce con l’esecuzione pubblica?
Se la motivazione scivola nell’ambizione può diventare un problema. Se per motivazione intendiamo una ricerca verso il miglioramento ed una coerenza etica verso un ideale musicale che si persegue, questo è sempre positivo. Se, ad esempio, voglio diventare il più bravo possibile senza restare ancorato a questioni solamente pratiche, se riesco a volare alto, questa è motivazione e non penso possa arrecare problemi.
Se viceversa la motivazione è semplicemente legata alla carriera, al guadagno o alla propria immagine di sé, è chiaro che userò qualsiasi mezzo ed, in questo senso, la motivazione è “malata”, come una sorta di affermazione distorta dell’ego, che alla lunga può non produrre solo risultati positivi, ma anche qualche effetto deleterio.
Alcune ricerche (Houston & Haddock, 2007) documentano come il proprio umore influenzi la memoria musicale: sembra in sostanza che siamo più abili a ricordarci brani o sequenze musicali in sintonia con il nostro stato d’animo. Qual è la sua opinione?
Concordo perfettamente. Credo che non sia solo questione di stati d’animo ma anche di congenialità verso certi percorsi musicali piuttosto che verso altri. È vero che a volte noi suoniamo dei brani e li impariamo nel giro di un giorno, mentre ne suoniamo altri per settimane e non ci rimane in mano http:\\/\\/psicolab.neta. Il celebre direttore d’orchestra Arturo Toscanini, ad esempio, era famoso per la sua memoria e riusciva a seguire passi di opere di Wagner senza partitura, correggendo anche parti strumentali specifiche senza avere spartiti davanti a sé. Al contrario affermava di non riuscire a memorizzare in alcun modo alcune partiture del Novecento. Forse lì vi era una sorta di “rifiuto”, sostanzialmente potrebbe esservi dietro una questione emotiva che finisce per creare dei blocchi.
È altrettanto vero, però, che la memoria viene influenzata molto anche dalla quantità di dati che contiene la musica: mantenere a memoria una misura di “10 bytes” è molto più semplice di memorizzarne una di 100, la differenza fra una semplice passo di Giuliani e uno tratto da un’opera di Bach, è proprio data dalla complessità!
Alcuni studi (Vines et al., 2006) suggeriscono poi come fattori extra-musicali (quali le espressioni facciali o l’armonia dei gesti) possano avere un’influenza sul giudizio complessivo della performance musicale? Quanto si sente di condividere questa affermazione?
Condivido al 100% ma purtroppo la trovo una cosa nefasta. Io ricordo una critica che uscì su un giornale tedesco in uno dei primi concerti che feci in Germania in cui si diceva che, nonostante la mia espressione facciale fosse impassibile, io ero espressivo… è possibile che un critico musicale debba osservare i tratti del viso per capire se un concertista è musicalmente espressivo oppure no?
Ho cominciato a rendermi sempre più conto di queste cose quando in altri concerti sentivo gente lodarmi per la giacca che indossavo o per lo smoking. È vero che la percezione di chi ascolta è di diversi livelli: dal cultore che si concentra ad occhi chiusi, a chi guarda l’insieme dell’evento, ed in fondo è vero che quando siamo sul palco siamo anche degli attori. Penso che chi non capisce questo difficilmente riesce a fare il concertista. Ad un basso livello si può suonare e basta, ma ad alti livelli il pubblico lo devi in un certo senso “dominare”, essere un attore attraverso la musica!.
Lei è ben conosciuto in ambito chitarristico per i positivi risultati della sua didattica e per gli ottimi rapporti umani che instaura con gli allievi. Ci dica, possiamo concretamente insegnare a suonare in pubblico o è un tipo di competenza che l’allievo acquisisce solamente dopo personali esperienze sul palcoscenico?
Si insegna facendo fare esperienze personali, la risposta è contenuta nella domanda. Nella musica il fatto di suonare in pubblico è un problema simile a quelli che si affrontano in matematica, solo che in questo caso la soluzione non è conosciuta. Di fatto l’allievo deve scavare in se stesso, cercare di capire qual è la cosa che lo blocca; a volte lo scopre per puro caso, magari quando in una certa situazione finalmente si lascia andare. Probabilmente il contesto era giusto: la preparazione solida, in più c’era un ottima acustica, aveva voglia di suonare ecc; a quel punto capisce che può farcela. L’insegnante in generale deve far crescere la fiducia dell’allievo: se questi non ha fiducia in se stesso non può affrontare una performance pubblica. Bisogna in sostanza riuscire a fare delle critiche senza demolire la sua fiducia. Il massimo della didattica lo raggiunge probabilmente chi riesce a smontarti completamente lasciandoti la percezione di aver ricevuto un sacco di lodi!
Cosa consiglia ai suoi allievi poco prima di salire sul palco? Ha qualche accorgimento particolare?
Quello di non consigliar niente.
Come si pone di fronte alla competizione interna tra gli allievi? Può essere una spinta endogena a far meglio all’interno della classe o al contrario ritiene che una crescita musicale non si faccia con i paragoni e le classifiche?
Ritengo che vi debba essere una grossa competizione ma solo nelle cose positive. Se un allievo non sa apprezzare un altro suo collega che suona meglio di lui, secondo me, non è un fatto positivo. L’arrivismo non porta a http:\\/\\/psicolab.neta, invece apprezzare un altro compagno di classe che suona meglio di noi è un segno di grande intelligenza; chi non riesce in questo vuol dire che sta girando in cerchio intorno al suo ego. Suonare non è mera affermazione di sé.
La competizione è inevitabile che vi sia, ma dev’essere basata solo sul merito e personalmente devo dire che io ho avuto la fortuna di avere in questi anni nelle mie classi sempre una competizione costruttiva e http:\\/\\/psicolab.neta più.
Quanta importanza dà il pubblico ad un errore?
Secondo me c’è un errore che potremmo definire “rosso” ed uno che potremmo definire “blu”. L’errore rosso è quello grave, l’errore blu è quello veniale: il primo è un errore che interrompe il ritmo del brano, che spezza una frase; questo ti rende inespressivo ed il pubblico lo nota, è come se il tuo suonare si bloccasse di colpo. L’altro errore – quello veniale – può essere una nota sbagliata, una frase musicale poco precisa o una leggera stonatura, o una momentanea imprecisione ritmica, ed è assai comune nel mondo del concertismo: un tecnico del suono, ad esempio, si accorgerebbe di queste sfumature nelle registrazioni di una performance dal vivo, ma il resto del pubblico non lo nota, solamente chi conosce bene il repertorio è in grado di cogliere certi dettagli.
I grandi interpreti sono solitamente grandi improvvisatori perchè quando c’è il vuoto di memoria colmano improvvisando certe lacune e – se uno vende bene il suo prodotto – riesce a convincere il suo pubblico, errori compresi!
Secondo lei, allora, il giudizio complessivo del pubblico è correlato inversamente con il numero di errori? In sostanza, chi sbaglia di più è meno apprezzato?
Non credo questo. Dipende sempre da cosa intendiamo per errore. Se per errore intendiamo lo sbaglio di nota, secondo me non vi è nessuna relazione; al contrario, se intendiamo un errore strategico nella conduzione del brano allora sì: in questo senso chi suona bene non commette mai errori, sbagliando anche un sacco di note! Abbiamo, ad esempio, numerose registrazioni dal vivo di Andrés Segovia e non sono assolutamente impeccabili se confrontate con lo spartito, ma il filo musicale è sempre teso e non viene mai perso.
Possiamo invece osservare l’allievo ancora un po’ inesperto che fa alcuni piccoli errori, torna indietro e ripete quel passaggio, colmando una lacuna in maniera assolutamente dissennata, perchè a quel punto la correzione che ha fatto diviene il vero errore, fermando il ritmo e il fraseggio del brano!
Un ultima domanda, tutt’altro che facile.. Perché abbiamo così paura di un pubblico? Che cosa rappresenta?
Secondo me la risposta va trovata in noi stessi. Ho pensato molto a questa cosa: io credo che noi non abbiamo paura del pubblico, abbiamo paura di noi stessi, della nostra reazione in condizioni di stress (come può essere in un recital) in cui veniamo giudicati, ci mettiamo in discussione ed il nostro Io può subire delle pesanti ripercussioni. Oltretutto più il nostro nome come musicisti cresce più questo diventa difficile da sostenere ad un certo livello e può suscitare paura, anche perchè il pubblico può divenire sempre più esigente, ad esempio in associazioni musicali prestigiose. Tuttavia non è il pubblico l’artefice della paura, esso è un po’ come la miccia che fa esplodere la polvere da sparo. Inoltre nessuno viene a sentirti ad un concerto perchè ti odia, in genere è indifferente o è curioso. Quando ti invitano in una stagione concertistica è perchè vogliono sentire quanto sei bravo: sei accolto a braccia aperte, perchè avere allora paura?
A me è servito molto sorridere al pubblico: quando ho cominciato ad avere un atteggiamento più aperto verso il pubblico, ho scoperto che non era l’evento “concerto” a creare problemi, ero io stesso a generarlo. Adesso ho imparato a gestire tutto in maniera più morbida e tutta la paura che prima mi attanagliava per settimane ora si riduce per me al giorno stesso o neanche. Chiaramente questo è frutto dell’esperienza, solamente negli anni si impara a superare certe tensioni. La riprova di quanto sia il concertista stesso l’artefice delle proprie paure è data dai sogni stranissimi che a volte si fanno la notte prima di un concerto: di sicuro in quel momento non c’era il pubblico a scatenare quei sogni!
Quando entri sul palco non si sa poi da chi è composto il pubblico, è una massa unica, una forza “oscura” che può danneggiare le nostre potenzialità. Prendiamo anche l’esempio del pubblico televisivo: dietro alla telecamera tu hai milioni di persone, ma davanti a te hai solo una telecamera: sono loro i colpevoli del tuo stress o è il tuo ragionamento che ti porta a valutare come pericoloso il fatto che in gioco vi sono milioni di ascoltatori? In concerti con pubblico molto numeroso, centinaia di persone, ho constatato come aumentando il numero di persone paradossalmente la mia paura diminuisse, perchè il pubblico in questo caso era una massa di elementi indistinguibili. Viceversa, un pubblico di 50 persone vicino al palco in cui magari individui anche il collega o l’allievo può essere ben più emozionante!
Al termine di questa risposta mi sono congedato dal Maestro. Ho piacevolmente riscontrato nella sua esperienza didattica e concertistica conferme pratiche sul rapporto – osservato nella letteratura accademica – tra memoria ed umore e sull’importanza di componenti extra-musicali nell’influenzare il giudizio di prestazioni sonore. La motivazione, poi, sembra essere il motore principale su cui fondare questa carriera e nelle sue parole non ho trovato alcun segno di convinzioni innatiste (largamente confermate anche dall’odierna ricerca di laboratorio) sull’origine delle doti musicali: concertisti si diventerebbe, in sostanza, non si nascerebbe. Al contrario, il tentativo di elaborare una specifica personalità del concertista non è stata accolta in maniera positiva, vista l’eterogeneità dei caratteri dei colleghi incontrati dal Maestro durante la sua esperienza professionale.
Il cammino per far luce sul macrocosmo mentale che ruota attorno ad un concerto è ancora lungo, ma sono fortemente convinto che, per raggiungere tale meta, non ci si possa privare del background di aneddoti ed osservazioni che i musicisti professionisti possono donare alla psicologia sperimentale per un interesse comune: capire cosa c’è dietro quel degrado della prestazione musicale in contesti pubblici che talvolta sancisce il confine tra chi intraprende con successo la carriera musicale e chi, invece, si sente costretto a rinunciarvi.