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Etologia ed Evoluzione

Essere vivi ed essere morti nella concezione di Robert Spaemann

Non sarà di certo possibile, né è nostra intenzione operare, in questo breve scritto, una rivisitazione esaustiva sulla questione della vita e della morte, secondo la trattazione di uno dei più grandi filosofi contemporanei. Tanto più, sarà impossibile scoprire elementi del tutto nuovi nella filosofia di Robert Spaemann, rispetto a quanto è stato detto e scritto da tutti coloro che in passato si sono occupati della dialettica mentale ed esistenziale che segna il nostro rapporto con la vita e con la morte. Pensiamo tuttavia che la questione debba essere  considerata quando, specie in questo periodo della storia Occidentale, parliamo di qualità della vita.
Qualche anno fa si diceva che il bisogno primario di ogni essere umano fosse il soddisfacimento di alcune esigenze, senza le quali sarebbe risultato impossibile rimanere in vita. Oggi la domanda è diversa e più raffinata: oltre al rimanere in vita, inteso come un diritto inalienabile ed ineludibile, come si deve garantire ci si debba rimanere? Dalla questione della vita come necessitato biologico e culturale assieme, siamo passati alla sua considerazione qualitativa, come ulteriore necessitato esistenziale generale. Ci capita assai spesso, specie quando facciamo lezione ai nostri studenti universitari, di ragionare sui concetti di sopravvivenza e di vivenza. In nome della concretezza che, secondo l’opinione di chi scrive, caratterizza la dimensione spirituale umana, mi capita di affermare che la differenza consiste essenzialmente nelle ore a disposizione di futuro che ogni essere umano possiede. Coloro che sopravvivono non possiedono un progetto di vita che vada oltre le 24 ore, mentre coloro che vivono, presuntivamente, ritengono di poter progettare una propria esistenza e quella dei propri figli oltre le 24 ore. Come si vede, questa differenza in ore determina l’ulteriore presenza di una qualità di vita decisamente diversa.
In questo contesto, diventa evidentemente importante il ragionamento circa l’idea di vita e di morte che un gruppo sociale, oppure una intera cultura, sviluppa. Epicuro raccomanda di ricordare che la morte non esiste perché sino a quando siamo vivi noi, la morte è tenuta lontano è quando lei sopraggiungerà non ci saremo più noi. Eppure, seguendo lo stesso ragionamento, “la presenza della morte nella vita (…) rende possibile l’esperienza del senso della vita stessa” (Spaemann R., 2005:117). Il filosofo contemporaneo pone una questione importante alla nostra attenzione, ossia che l’anticipazione mentale della morte rende possibile assumere la vita come un tutto. La vita, intesa dunque in questa accezione, si pone come un atto personale, altrettanto del morire. “Gli uomini possiedono la loro vita, tuttavia essi la possiedono in quanto l’accolgono, senza averla richiesta perché essi sono solo nella misura in cui hanno accolto la vita (…). Essere è per gli uomini qualcosa che accade, ma in un modo che essi devono realizzare. Infatti, mentre essi sono, accade loro di tendere all’essere (…). Tuttavia vivere nel tempo non ha soltanto il carattere del dover fare subito, ma è già sempre anche un morire nel senso del dover dare” (Spaemann R., ibidem:119). Nel morire ogni essere umano consegna la propria vita presente, assieme a quella passata, che è ora posseduta soltanto nel ricordo di chi sopravvive e si trasforma gradualmente nel ricordo collettivo di una comunità di uomini. Nella caducità dell’esistenza umana, l’azione del dare è in effetti l’unica formula attraverso la quale possiamo dichiarare di possedere qualcosa, mentre il morire è, in questa ottica cosmica, l’actus humanus per eccellenza. L’anticipazione del morire, ossia la conoscenza e la consapevolezza che inevitabilmente perderemo tutto, prima o poi, può strutturare e attraversare le nostre azioni con lo scopo di rendere personale l’esistenza di ogni individuo.
L’indagine del filosofo Robert Spaemann si basa proprio sulla nozione di “vita”. Spaemann, assumendo il vivere viventibus esse di Aristotele, precisa come l’essere sia un derivato della vita che implica in pari tempo capacità di riflettere su di essa e dunque alienazione da sé stessi. Il problema forse più evidente e difficile che si pone di fronte all’uomo del terzo millennio è proprio ciò che Spaemann definisce l’abolizione dell’uomo, la sua spersonalizzazione, a vantaggio di una sua assimilazione a grande macchina. Da Cartesio in poi si è andato perdendo il senso di vita, perché si è creduto che fosse in grado di rappresentare sia il “vissuto” dal lato soggettivo che quel processo materiale dello sviluppo somatico. Si è sviluppata la tendenza a spiegare il vissuto come una pura funzione di processi concreti sotto forma di esperienza. Per il Nostro invece, il concetto di “persona” così come quello di “vita” che ognuno percepisce, comprende la relazione emotivo-cognitiva che si stabilisce nella relazioni con gli altri.
Abbiamo visto, seppure assai brevemente, che il soddisfacimento dei bisogni primari caratterizza il primo stadio evolutivo di qualsiasi gruppo sociale, in qualsiasi geografia della Terra. I “bisogni hanno la possibilità di saturazione, i desideri non sono altrettanto limitabili, anzi le nostre società hanno dovuto registrare il fatto che anche quando cresce il livello di disponibilità di beni, al punto da rendere possibile il soddisfacimento dei desideri e non più soltanto dei bisogni, aumenta tuttavia il cosiddetto «coefficiente di insoddisfazione», perché i desideri soddisfatti generano altri desideri” (Berger K. S., 1994:215). Le nostre attuali e contemporanee società, caratterizzate dallo stimolo al consumo, rivelano una forte attitudine al massimo sfruttamento con il minimo sforzo. Nelle società antiche, i ricchi si dedicavano a incombenze, attività economiche anche se non prevalentemente consumistiche (le lettere, le arti, l’equitazione, le avventure militari, etc.). Oggi, anche le persone ricche rimangono legate a dinamismi prettamente consumistici e, non riuscendo a soddisfare il desiderio sul piano del benessere economico, si dedicano al miglioramento personale della qualità della vita, che però assume connotazioni contraddittorie. Una tra queste è la concezione secondo la quale esisterebbe una dimensione personalistica del valore. Sembra che oggi sia lecito, se non anche importante, riportare le distinzioni tra il bisogno dell’avere, il bisogno dell’amare e quello dell’essere, al di fuori delle relazioni sociali. Siamo in un mondo in cui sembra che si stia facendo strada l’idea di un individuo individualizzato anche nella formazione dei propri riferimenti valoriali, che comunque vanno ad influenzare quelli di una intera comunità (Bauman Z., 2002). L’attuale sistema economico globalizzato impone ai giovani una lunga fase di apprendistato, mentre richiede all’adulto il massimo delle proprie energie in un arco lavorativo che tende ad essere sempre più ampio. Questa situazione ha imposto, da un lato, la considerazione dell’allungamento della vita in relazione ad una sua qualità, peraltro utile al consumismo e, dall’altro lato, una ulteriore valutazione del concetto di vita e di morte. L’individuo anziano, il cui ruolo si è profondamente modificato col passaggio da forme di società in cui la vita attiva si alternava a quella contemplativa (società agricole), ora deve essere considerato tanto produttore quanto consumatore di merce di scambio. In questa dinamica, l’offuscamento dell’essere e della trascendenza nega il respiro alla contemplazione, intesa come capacità interiore ed invisibile di incontrare un proprio Essere Supremo. Siamo una società nella quale si tende a perdere il significato della ricerca trascendente, sia essa attraverso la fede religiosa o la fede scientifica. Tutto questo porta ad una costante e continua perdita della obiettività e trascendenza insita in una norma etica, giudicata in una specifica società come non consumabile, ma osservabile.
La posizione di Robert Spaemann si inserisce in questa visione della vita, grazie alla quale l’essere è dono e solo recuperando tale idea è possibile, secondo il Nostro, allontanarci dall’ansia della produttività.

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Alessandro Bertirotti

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