Abstract: Le neuroscienze studiano il cervello, la psicologia la psiche; le prime usano strumenti ‘oggettivi’ – l’EEG, la TAC, la PET, ecc. –, la seconda strumenti ‘soggettivi’: l’intuito, l’introspezione, l’empatia, ecc. Ma cervello e psiche sono due facce di una stessa medaglia: è quindi ragionevole cercare di gettare un ponte fra le neuroscienze e la psicologia. In questo articolo si presenta un modello di cervello costruito ad hoc, estremamente semplificato, suscettibile di rendere conto di diversi fenomeni psicologici, ivi comprese alcune esperienze comuni di ‘micropsicologia della vita quotidiana’, e di fornire alcune IPOTESI plausibili circa il funzionamento del cervello ‘vero’.
1. Introduzione
La psicologia moderna è una disciplina giovane e immatura, che ancora non sa ‘cosa farà da grande’ e, contrariamente alle scienze ‘adulte’, si suddivide in correnti, scuole, concezioni, ciascuna delle quali è impostata a priori su convinzioni spesso cariche di pregiudizi filosofici: il fatto che non si sia ancora del tutto affrancata dalla filosofia denuncia, appunto, la sua immaturità. Per darsi un contegno, la psicologia tende ad adottare paradigmi di ricerca validi per tutt’altre discipline o a precludersi lo studio di comparti di sua pertinenza, considerati inaccessibili (questo, per esempio, è il ‘difetto’ del comportamentismo), ma con ciò tradisce sé stessa, la propria specificità.
Fra tutte le discipline che studiano l’uomo, la psicologia è l’unica che ha l’ambizione di ‘osservarlo’ dall’‘interno’ e, a tal fine, non può fare a meno di usare ‘strumenti’ come l’introspezione e l’empatia e di fondarsi su impressioni, sensazioni, intuizioni. Ciò non significa che essa non possa, in una sorta di graduale messa a fuoco, pervenire a enunciati decidibili, a IPOTESI verificabili. Tenterò proprio questa strada: partendo da premesse ‘impressionistiche’, enunciate in termini intuitivi, condurrò le mie considerazioni verso la formulazione di IPOTESI verificabili, al di fuori di qualsiasi impostazione aprioristica generale, facendomi guidare soltanto dai fenomeni che prenderò in considerazione.
2. Mente e cervello
Ecco alcune definizioni del termine ‘mente’:
1. L’insieme delle facoltà intellettive e psichiche che consentono all’uomo di conoscere la realtà, di pensare e di esprimere giudizi; la sede in cui ha luogo l’attività del pensiero (“mille pensieri mi si affollano nella mente”; “mi è venuta un’idea in mente”).
2. L’insieme delle funzioni superiori del cervello e, in particolare, di quelle cui si può avere accesso per via introspettiva, come il pensiero, la memoria, le emozioni, ecc.
3. L’insieme delle funzioni e dei processi psichici consapevoli e inconsci.
Queste tre definizioni concordano sul fatto che la mente sia un “insieme”, un “oggetto collettivo”, mentre non concordano circa l’estensione della mente: se, cioè, essa comprenda esclusivamente processi psichici consci oppure abbracci anche processi inconsci. Ma il nodo irrisolto della questione che ha per argomento la mente è il rapporto che essa avrebbe col cervello. Diatribe interminabili sono sorte e continuano ad accendersi intorno a questo (falso) problema: i sostanzialisti (di ispirazione ‘platonica’), ormai in minoranza, sostengono l’autonomia della mente dal cervello, i funzionalisti (di ispirazione ‘aristotelica’) intendono la mente come un insieme di funzioni cerebrali. Quel che è certo è che il cervello è una ‘cosa’ concreta: lo si può vedere, pesare, fare a fettine; la mente, invece, è un concetto e, come tale, dipende dal modo in cui, appunto, è concepita (e definita). Ha, quindi, poco senso chiedersi se abbia o meno un’esistenza autonoma rispetto al cervello: si rischia un circolo vizioso in cui la risposta alla domanda è insita nella definizione. E spesso la definizione è carica di presupposti ideologici. Pertanto, nel seguito, non parlerò di mente, ma di cervello. Mi scuseranno i neurologi, i neurofisiologi, i neuroscienziati: non pretendo di parlare del cervello con le loro competenze e conoscenze. Il mio ‘cervello’ sarà un cervello-ipotesi-di-lavoro, un modello di cervello ad hoc, in vista dei risultati cui pervenire, un cervello semplificato: il cervello minimo indispensabile cui attribuire determinate funzioni.
3. Il cervello come proiettore
Gli stimoli sensoriali vengono captati, elaborati e proiettati dal cervello: gli stimoli visivi e auditivi vengono proiettati sulla fonte, gli stimoli tattili – neutri, dolorosi e piacevoli – vengono proiettati sulla parte del corpo interessata, gli stimoli gustativi e olfattivi vengono proiettati, principalmente, sulle papille della lingua, i primi, sulla superficie interna del naso, i secondi.
Una prima funzione del cervello è quindi quella di “ricevitore/proiettore”. Ma, ovviamente, è anche necessario attribuire al cervello una funzione di “trasmettitore/motore”: le due funzioni: quella di ricevitore/proiettore e quella di trasmettitore/motore vanno assegnate a parti diverse del cervello.
Chiamo “esterno”, in senso psicologico, il luogo da cui provengono tutti gli stimoli succitati, luogo che non coincide con l’esterno del corpo: in base alla mia definizione, un mal di denti, un mal di pancia provengono dall’esterno. Per poter percepire gli stimoli provenienti dall’esterno, questi devono essere elaborati dal cervello e proiettati. In questo senso, una parte della coscienza coincide con la proiezione: si è coscienti di ciò che viene proiettato Ma esiste una sfera di cui abbiamo perfettamente coscienza, i cui elementi non vengono proiettati (per lo meno, non integralmente), ma “percepiti dentro”, “vissuti”: è la sfera emotiva, che comprende emozioni, sentimenti, affetti. Chiamo “interno”, in senso psicologico, questa sfera.
Chiamo “esterno reale” la realtà e il corpo da cui provengono gli stimoli, chiamo “esterno virtuale” lo “schermo” su cui vengono proiettati gli ‘stimoli’ provenienti dal cervello trasmettitore e captati dal cervello ricevitore/proiettore. Su questo schermo virtuale vengono proiettati i pensieri, le fantasie, i sogni, ecc. In particolare, nel caso dei sogni, lo schermo virtuale acquista una sua ‘realtà’: è la scena del sogno.
Proprio nel caso del sogno è sostenibile la supposizione che esista un cervello trasmettitore e un cervello ricevitore interagenti: il primo ‘crea’ il sogno, il secondo vi assiste in veste di spettatore e/o personaggio. Ma anche in un’esperienza comune di “psicofisiologia della vita quotidiana” è rinvenibile l’interazione fra cervello trasmettitore e cervello ricevitore. Mi riferisco al dormiveglia e, in particolare, alla fase ipnagogica. In questa zona di confine fra la veglia e il sonno, il cervello ricevitore, semiaddormentato, assiste a un pullulare di immagini e di pensieri che gli vengono trasmessi dal cervello trasmettitore. Si può fare un esperimento mentale: cercare di non influenzare in alcun modo l’attività del cervello trasmettitore, assumendo una posizione passiva di pura ricezione. Allora i pensieri più strani, le immagini più inconsuete affioreranno alla coscienza semiobnubilata. Ho appena introdotto, di soppiatto, un’idea che mi affretto a precisare: parlando di interazione fra cervello trasmettitore e cervello ricevitore, dicendo che si può cercare di non influenzare il cervello trasmettitore col cervello ricevitore, ovvero che si può assumere una posizione passiva di pura ricezione, ho implicitamente ammesso che, viceversa, il cervello ricevitore possa influenzare il cervello trasmettitore. Così è: l’interazione fra i due cervelli pullula di feedback. Il cervello ricevitore può trasmettere ordini e istruzioni al cervello trasmettitore: a tutti sarà capitato di andare a dormire con un problema irrisolto in testa e di risvegliarsi con la soluzione in mente. Persino nel sogno, in cui sembra di essere totalmente passivi, si può verificare un’interazione: molti individui sostengono di essere in grado di orientare i propri sogni. D’altro canto, durante la veglia, quando si ragiona o si segue una serie di pensieri coerenti, si ha proprio l’impressione che l’attività mentale si svolga interamente nella coscienza, donde la presunzione di essere ‘padroni’, a livello cosciente, dei propri pensieri. Invece la coscienza è l’ultima a sapere quel che si agita nel cervello, proprio perché l’atto di coscienza è l’ultimo passo di un processo di ricezione/proiezione.
Una volta si pensava che si sognasse soltanto durante la fase REM del sonno; oggi si sa che si sogna anche al di fuori della fase REM. Perché non fare un passo avanti e supporre che si sogni anche di giorno? Di giorno, a causa dell’intensa luce solare, non vediamo le stelle, ma le stelle continuano ad esserci. Analogamente, da svegli, a causa dell’intensità degli stimoli provenienti dalla realtà, potremmo non essere coscienti degli stimoli, più deboli, provenienti dal cervello trasmettitore e corrispondenti all’attività onirica. Ecco quindi una prima IPOTESI verificabile: si sogna anche di giorno, ovvero l’attività cerebrale che corrisponde al sogno (anche se il sogno non viene vissuto) continua anche di giorno. Sicuramente, anche di giorno, il cervello trasmettitore lavora, anche se non ne siamo coscienti, perché il cervello ricevitore/proiettore è in altre faccende affaccendato. Del fatto che il cervello trasmettitore lavori inconsciamente abbiamo le ‘prove’: quando ci affiora improvvisamente alla coscienza un nome o una parola che non riuscivamo a reperire, quando, improvvisamente, ci affiora alla coscienza la soluzione di un problema che non riuscivamo a risolvere, ecc.
4. La proiezione semantica (IPOTESI): senso e significato
Un’esperienza comune di micropsicologia della vita quotidiana è: avere una certa parola “sulla punta della lingua”. Capita di voler dire qualcosa, si sa esattamente quello che si vuol dire, ma non si riesce a trovare la parola ‘giusta’. Un nostro eventuale volenteroso interlocutore può cercare di aiutarci, suggerendoci la parola che, secondo lui, stiamo cercando. Se la parola suggerita non è esattamente quella ‘giusta’, anche se di significato molto simile, noi ‘sentiamo’ che si tratta di una parola ‘sbagliata’. Se la parola suggerita è esattamente quella che andavamo cercando, noi ‘sentiamo’ che si tratta della parola ‘giusta’:la parola ‘giusta’, come una chiave che entra esattamente nella sua serratura e la apre, si adatta esattamente a quello che intendevamo dire e lo esprime.La parola ‘giusta’ suggerita produce in noi qualcosa: chiamo questo qualcosa senso. Chiamo significato la proiezione (semantica) del senso sulla parola.
La distinzione fra senso e significato, sia pure in termini diversi da quelli qui proposti, non è una novità: l’ha introdotta Frederic M. Paulhan (1856-1931), psicologo francese, autore di La double fonction du langage (Alcan, Paris, 1929) e dell’articolo Qu’est-ce le sens des mots, in “Journal de Psychologie, XXV, 1928, pp. 289-329. Riporto quanto dice, al riguardo, L. S. Vygotskij (v., p. 380): “Paulhan ha reso un grande servizio all’analisi psicologica avendo introdotto la differenza fra il senso di una parola e il suo significato. Il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola. Il senso di una parola è così una formazione sempre dinamica, fluttuante, complessa che ha parecchie zone di stabilità differenti. Il significato è soltanto una di queste zone del senso che acquista la parola in un qualche contesto, ma è la zona più stabile, più unificata e più precisa. Come è noto, la parola cambia facilmente il suo senso in contesti diversi. Il significato, al contrario, è quel punto immobile e immutabile che rimane stabile di fronte a tutti i cambiamenti di senso della parola nei diversi contesti. Questo cambiamento del senso della parola abbiamo potuto stabilirlo come il fatto fondamentale nell’analisi semantica del linguaggio. Il significato reale della parola non è costante. In questa operazione la parola ha un significato, in un’altra essa prende un altro significato. Questa dinamicità del significato ci porta al problema di Paulhan, alla questione della relazione tra significato e senso. La parola, presa da sola nel vocabolario, ha un solo significato. Ma questo significato non è niente altro di più che una potenzialità che si realizza nel linguaggio vivente, di cui questo significato è soltanto una pietra nell’edificio del senso”.
Il mio punto di vista è del tutto diverso da quello di Paulhan (il quale, fra l’altro, se la traduzione del suo pensiero è corretta, si contraddice: v. le frasi citate che ho evidenziato in grassetto). Io sono partito dalla constatazione che si suole concepire il significato come un elemento costitutivo della parola (si dice che una parola ha un significato), mentre è evidente che, in realtà, la parola, in sé, non è altro che in insieme di suoni o di segni grafici e, senza un interprete che riunisca quei suoni o quei segni in una Gestalt e attribuisca loro un significato, non ha alcun elemento costitutivo. Quindi il significato è attribuito alla parola o, come sostengo io, vi è proiettato. Per quel che riguarda il senso, la mia concezione è più vicina a quella di Paulhan (v. cit.: “Il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola”): il senso è ciò che la parola suscita in noi.
Il senso appartiene alla sfera emotiva, è una microemozione, il significato, in quanto risultato di una proiezione, appartiene alla realtà o allo schermo virtuale. I termini senso e significato non si applicano soltanto alla sfera del linguaggio, ma all’intera sfera cognitiva (nonché alla sfera emotiva). Al limite, possiamo dire che noi vediamo rosso un oggetto rosso, perché quell’oggetto suscita in noi un ‘senso di rossezza’ (i colori, peraltro, producono svariati sensi e, quindi, significati soggettivi, fino a influenzare gli stati d’animo), o che vediamo tondo un oggetto tondo, perché quell’oggetto suscita in noi un ‘senso di rotondità’ (non si pensi tanto a una sfera pefetta, quanto, per esempio a un volto paffuto, la cui vista suscita in noi un ‘senso di rotondità’). In particolare, senso e significato si applicano al mondo delle immagini, delle rappresentazioni. Un’altra esperienza comune di micropsicologia della vita quotidiana è: notare le rassomiglianze. Per esempio, abbiamo l’impressione che una certa persona assomigli a un’altra. Spesso non sappiamo precisare i tratti somiglianti, perché ci sfuggono, ma l’impressione è netta: i tratti del viso di quella persona suscitano in noi un senso molto simile a quello che suscita in noi l’altra.
Ho accennato al fatto che il senso appartiene alla sfera emotiva, è una microemozione. Io faccio rientrare nella sfera emotiva la vasta gamma delle reazioni, agli stimoli esterni e interni, della sensibilità psicologica (v. cap. 14): dalle più forti – le emozioni – alle più deboli – i sensi –, attraverso i sentimenti, gli affetti, ecc. Esistono, poi, sensi forti (il senso di pericolo, il senso di colpa, il senso di solitudine, il senso di desolazione, il senso di gioia, il senso di euforia, ecc.), sensi di media forza (il senso d’identità o senso di sé, che considero di media forza perché, normalmente, resta in sottofondo, anche se può subire sconvolgimenti di grande impatto emotivo, come negli episodi di depersonalizzazione o nei disturbi di identità) e sensi deboli, appartenenti alla cosiddetta sfera cognitiva, per esempio il senso di rossezza, il senso di rotondità, di cui sopra, ecc. I sensi più forti, così come i sentimenti, gli affetti, le emozioni, non vengono proiettati integralmente, ma contribuiscono a determinare il significato delle relative rappresentazioni: di fronte a un paesaggio desolato, si prova un senso di desolazione. Ma come vanno, in realtà, le cose? Si prova un senso di desolazione perché il paesaggio è desolato o, viceversa, si trova desolato il paesaggio perché si prova un senso di desolazione? Prendiamo in considerazione l’emozione più studiata (nonché una delle più forti): la paura. Di fronte a un oggetto pauroso, si prova paura e le apparenze ci dicono che si prova paura perché l’oggetto è pauroso (così i fobici giustificano la loro paura dell’oggetto fobico e la razionalizzano); io, invece, sostengo, in coerenza col principio di proiezione semantica, che si trova pauroso l’oggetto perché si prova paura, cioè l’emozione ‘precede’ il significato, in quanto il significato è la conseguenza della proiezione semantica dell’emozione (di parte dell’emozione) sulla rappresentazione. È questa un’applicazione di quello che ho chiamato Principio del capovolgimento delle apparenze, in base al quale, in molte esperienze soggettive/introspettive, le cose vanno in maniera opposta a quel che sembra. In molte esperienze soggettive/introspettive, cioè, ci troviamo nella stessa situazione di un ingenuo viaggiatore, che, guardando fuori dal finestrino del treno, pensi che sia il paesaggio a muoversi e non il treno.
Nel 1884, William James ha proposto una teoria secondo cui le emozioni sono la diretta conseguenza delle modificazioni fisiologiche (e comportamentali) indotte dalla percezione di uno stimolo emotivo. Per esempio, “siamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché gridiamo, spaventati perché tremiamo”. Anche questa sarebbe un’applicazione del Principio di capovolgimento delle apparenze, ma non mi convince: secondo me, l’espressione di un emozione segue l’emozione, non la precede.
Un caso in cui, invece, il Principio di capovolgimento delle apparenze è applicabile e illuminante è il rapporto fra insight e guarigione nel corso di un trattamento psicoanalitico. Secondo Freud, l’insight, la cosiddetta “presa di coscienza”, determina, nel senso che fa avanzare di un passo, il processo di guarigione. Io sostengo che è vero il contrario (IPOTESI): è l’avanzamento del processo di guarigione che determina l’insight. Fintanto che le difese erette per arginare l’angoscia non sono indebolite, non c’è alcuna possibilità di insight (sarebbe troppo bello se la guarigione si ottenesse facendo appello alla razionalità: questo, per esempio, è il ‘difetto’ della psicoterapia cognitiva). Quando, invece, il processo di guarigione è avanzato fino al punto di indebolire le difese, allora la presa di coscienza è possibile. Ma, allora, che cos’è che promuove il processo di guarigione? Il rapporto analitico. La fiducia nel terapeuta, l’alleanza terapeutica, il transfert e il controtransfert positivi sono tutti fattori che concorrono a lenire l’angoscia e a indebolire le difese. L’insight corona e sancisce i progressi fatti.
Torniamo ora all’oggetto pauroso e alla paura relativa. Se la mia IPOTESI è giusta (cioè si trova pauroso l’oggetto perché si prova paura, e non viceversa), che cos’è che suscita la paura? IPOTESI: la paura è suscitata da Gestalt primarie o ancestrali, la sensibilità alle quali è trasmessa geneticamente. Così come esistono Gestalt (i tratti fisionomici dei cuccioli) che suscitano tenerezza, esisterebbero Gestalt capaci di suscitare paura, ovvero il senso di pericolo (le forme e/o i versi di certi animali, per esempio), cui andrebbero aggiunti altri stimoli (il buio, l’altezza, ecc.). In presenza di tali Gestalt e/o stimoli, si proverebbe paura, ovvero senso di pericolo, la cui proiezione (semantica) conferirebbe all’oggetto relativo il significato di oggetto pauroso.
5. La comprensione del linguaggio: l’‘apnea’ semantica (IPOTESI)
Quando si vuol scrivere un SMS con un moderno cellulare, ci si imbatte in una funzione che dovrebbe facilitare il compito, facendo risparmiare tempo, e, invece, crea fastidiosi contrattempi: come un interlocutore precipitoso, ma poco empatico, il cellulare cerca di indovinare e anticipare la parola che si sta scrivendo e, invariabilmente, sbaglia. Supponiamo che si voglia scrivere la parola cartuccia. Non appena si sono scritte le prime due lettere, ca, il cellulare ‘suggerisce’ cane. Allora si digita anche la r: car. E il cellulare ‘suggerisce’ carota. Avanti: cart. E il cellulare: cartone. Finalmente, digitata anche la u (cartu), il cellulare, se possiede nel suo vocabolario la parola cartuccia, la ‘suggerisce’, altrimenti, rimasto senza risorse, aspetta, buono buono, che si sia scritta l’intera parola. Tutto questo per dire che, per comprendere una parola (lasciamo perdere i cellulari e parliamo di interlocutori umani), è, ovviamente, necessario che la parola sia stata pronunciata integralmente (mi riferisco al linguaggio orale, poiché la comprensione del linguaggio scritto avviene per via ‘olistica’: si legge la parola nel suo insieme, come Gestalt, e non sillabandola). Ciò significa che la proiezione semantica ‘scatta’ alla fine della parola. Chiamo apnea semantica la sospensione della proiezione semantica fino al momento in cui scatta. Immaginiamo il fenomeno al rallentatore: il nostro interlocutore pronuncia la parola cane: c a n e. Non appena ha pronunciato la e, scatta la proiezione semantica, nell’ipotesi che la parola in questione sia cane. Se, invece, l’interlocutore continua, pronunciando, per esempio, le lettere s t r o, la prima proiezione semantica si anhttp:\\/\\/psicolab.neta e ne riscatta un’altra non appena l’interlocutore ha pronunciato la o: la parola è canestro. Tutto ciò, in realtà, avviene nell’arco di microsecondi. Per indicare succintamente quanto detto, scriviamo:
canestro]Pr.
|Apnea|
Il concetto di apnea semantica è più illuminante quando dalla comprensione delle singole parole si passa a trattare la comprensione delle frasi. Prendiamo in considerazione le due frasi seguenti:
1. Marco dice: “Giovanni è stupido”.
2. “Marco – dice Giovanni – è stupido” (nel linguaggio orale, la punteggiatura è sostituita dalla prosodia).
La prima frase, nella notazione introdotta, si scrive:
(Marco dice]Pr Giovanni è stupido]Pr)]Pr.
|Apnea| |Apnea|
La seconda:
(Marco (dice Giovanni)]Pr è stupido)]Pr]Pr.
|Apnea|
|A p n e a|
L’apnea semantica, nel caso di un inciso, tiene in sospeso la sottofrase finché non si è proiettato l’inciso; quindi si proietta la sottofrase ‘sospesa’ e poi l’intera frase.
La seconda delle due frasi è più ‘faticosa’ da interpretare. Se si pronuncia la frase senza intonazioni o la si scrive senza punteggiatura, si tende a interpretarla come la 1 (lectio facilior). L’apnea semantica rende conto del fatto che le frasi molto lunghe, piene di incisi e di subordinate, sono particolarmente ‘faticose’ da seguire.
L’ascolto di un discorso, come la lettura, innesca l’immaginazione, la rappresentazione ‘mentale’ (proiettata sullo schermo virtuale); non si tratta, naturalmente, di una rappresentazione nitida, della forza di una percezione o di un’allucinazione, ma di una rappresentazione debole, ‘pallida’: quanto basta per capire ciò che si sta ascoltando o leggendo.
Una frase, come un intero testo, può avere diversi significati: un significato letterale, uno metaforico, uno apparente e uno nascosto (come in enigmistica), ecc., ma ogni significato non è la somma dei significati delle parole che la compongono, bensì un’unità indivisibile (a maggior ragione, ovviamente, il significato di una parola non è la somma dei significati delle lettere che la compongono, che non hanno un significato). Però, per poter cogliere il significato di una frase, è necessario cogliere, prima, i significati delle parole che la compongono. Insomma, il significato della frase dipende dai significati delle parole che la compongono, ma non si riduce alla loro somma. La frase “il cane abbaia” ha un significato (che non è la mera somma dei significati dei suoi componenti), la frase “il cane strofuglia” no, perché la parola “strofuglia” non significa niente.
6. L’IPOTESI semantica vs. la grammatica generativa
Pinker (v., p. 33), a sostegno della teoria di Chomsky sull’innatismo della logica del linguaggio, a proposito della conversione di un enunciato dichiarativo nella forma interrogativa, fa il seguente esempio.
“Prendete ora l’enunciato A unicorn that is eating a flower is in the garden [In giardino c’è un unicorno che sta mangiando un fiore]. Ci sono due is. Quale dei due deve essere spostato? Ovviamente non il primo che si incontra: ciò produrrebbe un enunciato alquanto bizzarro:
A unicorn that is eating a flower is in the garden ® Is a unicorn that eating a flower is in the garden? [È un unicorno che mangiando un fiore è in giardino?]
Ma perché non possiamo spostare quell’ausiliare? Dov’è che non ha funzionato la procedura semplice? La risposta, secondo Chomsky, viene dall’architettura di base del linguaggio”.
Secondo me, invece, non è necessario ipotizzare un’architettura di base del linguaggio, perché l’enunciato dichiarativo di cui sopra viene inteso così:
(A unicorn (that is eating a flower)]Pr is in the garden)]Pr]Pr.
[Apnea|
|A p n e a|
Il primo ‘is’ è ‘bloccato’ nella prima proiezione semantica (that is eating a flower diventa un’unità semantica inscindibile) e non si può spostare passando alla forma interrogativa (d’altronde, il primo ‘is’ si può omettere: A unicorn eating a flower is in the garden). Lo stesso Pinker, peraltro, ammette che, se si spostasse l’‘is’ ‘sbagliato’, si otterrebbe un enunciato alquanto bizzarro. Bizzarro da quale punto di vista? Evidentemente, dal punto di vista semantico, del significato. Ancora: nell’enunciato usato come esempio, la forma interrogativa serve per sapere se l’unicorno si trova in giardino e, quindi, è l’‘is’ che si riferisce al giardino che va spostato. Se, invece, l’enunciato dichiarativo fosse The unicorn that is in the garden is eating a flower [L’unicorno che sta in giardino sta mangiando un fiore], la forma interrogativa servirebbe per sapere se l’unicorno sta mangiando un fiore e, quindi, sarebbe l’‘is’ riferito al fiore che si dovrebbe spostare. Nella notazione qui introdotta l’enunciato dichiarativo si scriverebbe:
(The unicorn (that is in the garden)]Pr is eating a flower)]Pr]Pr
[Apnea|
|A p n e a|
Esistono, poi, altre tre condizioni che contribuiscono a ‘strutturare’ il linguaggio: 1) la tendenza a semantizzare; 2) la tendenza a regolamentare; 3) l’influenza della realtà sul linguaggio.
Da piccolo, quando ascoltavo la celebre aria del Rigoletto “La donna è mobile”, commettevo un errore di ricezione. Il modo di pronunciare le frasi, nella lirica, non è quello usuale, perché sottoposto alle esigenze della musica, e io, in base alle pause del cantante, anziché sentire “la donna è mobile qual piuma al vento…”, sentivo “la donna è mobile: qual più malvento?”. Sotto l’influsso di una precoce misoginia, non avevo dubbi sul significato della parola “malvento”: doveva significare “evento maligno”, cioè “disgrazia”. Ciò per dire che l’uomo (differenziandosi in questo dagli altri animali) ha una fortissima tendenza a semantizzare, a dare significato. E non solo in ambito linguistico: l’animismo, il panteismo, ecc. scaturiscono dalla stessa tendenza.
L’uomo, inoltre, ha anche una fortissima tendenza a regolamentare, a introdurre norme, cioè, in ambito linguistico, a sintattizzare. Un giorno, quando mia figlia era piccola, in presenza della nostra gatta che miagolava, le dissi: “Senti come miagola la gatta?”. E mia figlia: “Perché, papà, la gatta ti agola?”. Aveva trasformato le prime due lettere del verbo in una particella pronominale.
Ma, soprattutto, è la ‘struttura’ della realtà che struttura il linguaggio (IPOTESI). Nella realtà esistono oggetti (→ sostantivi, pronomi), dotati di caratteristiche, qualità, ecc. (→ aggettivi) che compiono o subiscono azioni (→ verbi), secondo certe modalità, in un certo spazio, in un certo tempo, ecc. (→ avverbi). In tutte le lingue esistono sostantivi, pronomi, aggettivi, verbi, avverbi e il modo in cui vengono combinate queste parti del discorso ‘ricalca’ la realtà. Queste sono le parti del discorso dotate di un significato proprio. Esistono poi gli articoli, le congiunzioni e le preposizioni, parti del discorso prive di un proprio significato, ma che contribuiscono a formare locuzioni significative: potremo chiamare le prime parti semantiche e le seconde parti sintattiche.
Mentre l’uso (si badi bene: l’uso, non il significato, come vedremo fra breve) delle parti semantiche è uguale in tutte le lingue (i sostantivi indicano oggetti, concreti o astratti, i verbi azioni o stati, ecc.), l’uso delle parti sintattiche può variare da lingua a lingua, anche se si tratta di lingue molto vicine. Per esempio, in francese, “una tazza da caffè” si dice “une tasse à café”, “uno spazzolino da denti” si dice “une brosse à dents” (si noti, per inciso, che anche il genere varia da lingua a lingua: molti sostantivi femminili in francese sono maschili in italiano e viceversa), “zuppa di cipolle” si dice “soupe à l’oignon”, “in Giappone” si dice “au Japon”, “col sorriso sulle labbra” si dice “le sourire aux levres”, “ai nostri giorni” si dice “de nous jours”, “colpire con gran forza”, si dice “frapper de toutes ses forces”, “in ogni modo”, si dice “de toute façon”, “non ho un momento libero” si dice “je n’ai pas un moment de libre”, “non c’è più pane” si dice “il n’y a plus de pain”, “non ha fortuna” si dice “il n’a pas de chance”, ecc. Anche l’uso degli articoli varia molto da lingua a lingua. Tutto ciò perché le parti sintattiche non ‘ricalcano’ la realtà e quindi il loro uso è soggetto a una forte discrezionalità.
Il significato delle parti semantiche, contrariamente all’uso, che è invariante, può variare da lingua a lingua. Citerò, al riguardo, due fenomeni particolarmente interessanti: quello dei “falsi amici” e quello della sensibilità all’ambiente che si traduce in sensibilità semantica.
Si chiamano “falsi amici” le parole di una lingua simili nella forma ma diverse per significato rispetto a quelle di un’altra lingua. Per esempio, in francese, caleçon non sono calzoni, ma mutande (da uomo), case non è casa, ma capanna, cave non è né cava né cavo, ma cantina, cantine non è né cantina né cantino, ma mensa, édicule non è edicola, ma vespasiano, feriale non è feriale, ma festivo, grain non è grano, ma chicco, marchepied non è marciapiede, ma predellino, parole non è parola, ma espressione, cadre non è quadro, ma cornice, salir non è salire, ma sporcare, verdure non è verdura, ma vegetazione, ecc.
Ancora più interessante, specie ai fini del presente scritto, è il fenomeno della sensibilità all’ambiente che si traduce in sensibilità semantica: gli Eschimesi hanno diversi termini per indicare la neve. D’altronde, anche i linguaggi specialistici hanno una terminologia “ad alta risoluzione”, nel loro ambito di competenza. Che la sensibilità all’ambiente si traduca in sensibilità semantica è una mia IPOTESI. L’ipotesi opposta è stata sostenuta da Whorf, secondo cui “[…] oggetti ed eventi denotati da una parola sono concepiti in maniera differente a seconda della cultura del parlante. La conseguenza logica di tale ipotesi è che la causa di queste diverse modalità di vedere e di concepire la realtà può essere imputata al linguaggio e al suo uso presso le diverse comunità linguistiche” (v. Nicoletti e Rumiati, p.150). Che il linguaggio determini la percezione e il modo di concepire non mi convince: penso che sia piuttosto la percezione a determinare il linguaggio e il modo di concepire.
In conclusione, prima di fare ipotesi sull’innatismo di regole sintattiche universali, credo che sarebbe meglio indagare molto più a fondo il versante semantico del linguaggio, anche ai fini della sua strutturazione sintattica. Quel che si sa per certo è che esiste una precisa finestra temporale per l’apprendimento ottimale del linguaggio, soggetto a una sorta di imprinting. Che in tale apprendimento concorrano elementi innati, e in quale misura, mi sembra ancora da stabilire in via definitiva.
7. Il linguaggio in uscita
‘Distratti’, ovvero ‘abbagliati’, dalla forma finale dell’output linguistico – una serie di suoni, nel caso del linguaggio orale, una serie di simboli grafici, nel caso della parola scritta – linguisti e psicologi tendono a dimenticare che, in realtà, l’output linguistico è una serie di movimenti: dell’apparato fonatorio, nel caso del linguaggio orale, della mano nel caso del linguaggio scritto (per non parlare del linguaggio dei sordomuti, che anche nella sua forma finale è un insieme di gesti). Gli psicofisiologi sanno perfettamente che l’area di Broca, deputata all’emissione del linguaggio, è collegata all’area motoria, ma ciò non basta a far loro concludere che l’output linguistico è, semplicemente, un output motorio. Ciò perché l’output linguistico è portatore di senso: la parola ha un significato e il significato si associa al segno, al simbolo.
Per risonanza, anche le aree acustiche e visive possono essere attivate, nell’emissione linguistica, ma la mia IPOTESI è che l’output linguistico sia un output motorio: pronunciare la frase “il cane abbaia” è un’operazione del tutto equivalente a grattarsi il naso che prude.
IPOTESI: il cervello trasmettitore/motore ha accesso diretto alla formulazione del linguaggio, scritto e parlato. Si è perfettamente coscienti di quel che si intende dire o scrivere solo dopo (dopo microsecondi) averlo detto o scritto: come il prurito al naso innesca l’azione del grattarsi, il senso (ciò che si vuol dire) innesca l’azione del parlare (dello scrivere). Quando si vuol dire qualcosa, ma non si trovano le parole, si è bloccati al livello del senso. Insomma, per parlare o scrivere, non è necessario rappresentarsi, prima, mentalmente la parola, pronunciata o scritta (nel caso del linguaggio dei sordomuti, poi, è del tutto inverosimile che ci si rappresenti la sequenza dei gesti prima di compierli).Spesso, parlando, specie quando si tratta di un discorso elaborato, accade di sentirsi pronunciare parole che non si sospettava minimamente di essere in punto di pronunciare o, addirittura, di affrontare argomenti diversi da quelli che si avevano ‘in mente’. Ciò capita, in particolar modo, quando si parla da quella specie di confessionale che è il divano psicoanalitico. Ma la stessa cosa succede anche nel caso del linguaggio scritto: le parole vengono vergate sulla carta e sembrache seguano un percorso loro, poi si rilegge quello che si è scritto e si apportano, eventualmente, correzioni (feedback). Un’altra ‘prova’ di quanto vado asserendo è rappresentata dalla ‘scrittura automatica’ eseguita in stato di ipnosi.