ABSTRACT:
Il contributo che la Psicologia può offrire nella riduzione degli infortuni sul lavoro ruota attorno alla crescita della consapevolezza, da parte del soggetto, circa il ruolo giocato da variabili psicologiche nel verificarsi dell’incidente. La percezione del rischio assume in questa prospettiva un’importanza di primo piano, insieme all’attenzione e alla motivazione al lavoro.
KEYWORDS: sicurezza, infortuni, psicologia, rischio, incidenti
INFORTUNI SUL LAVORO E PSICOLOGIA
La Psicologia della Sicurezza può offrire validi contributi nella prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, principalmente per quel che concerne l’influenza esercitata da componenti cognitive, motivazionali e di personalità sulla messa in atto di comportamenti rischiosi.
I dati Inail relativi agli infortuni sui luoghi di lavoro evidenziano una diminuzione dei casi denunciati nel 2005 rispetto agli anni precedenti, confermando una positiva tendenza già emersa nel rapporto annuale relativo al 2004.
Tuttavia il valore assoluto di tali casi rimane molto preoccupante: nel 2005, infatti, risultano pervenute all’Inail 939566 denunce di infortunio con ben 1206 casi mortali, di cui 1065 di competenza dell’industria, 127 dell’agricoltura e 14 dei Dipendenti dello Stato (Rapporto Annuale Inail, 2005).
Il contributo che la Psicologia può offrire nel tentativo di diminuire il fenomeno si include l’aumento della consapevolezza circa le dinamiche intervenienti nel verificarsi dell’incidente, e dunque nella descrizione e diffusione di una cultura del benessere che contempli, fra l’altro, la focalizzazione dell’attenzione sui processi psicologici che fanno da substrato agli atteggiamenti, ai comportamenti e dunque alle azioni che precedono l’infortunio.
In particolare risultano fondamentali i seguenti elementi: la percezione del rischio, l’attenzione, la motivazione e alcuni specifici tratti di personalità che, correlati allo stress di una certa situazione lavorativa, possono agevolare il verificarsi dell’incidente.
La percezione del rischio
La percezione del rischio è l’elemento discriminante per l’adozione di comportamenti atti a prevenire possibili incidenti.
Al fine di comprendere al meglio il significato della percezione del rischio, è necessario distinguere in primo luogo il significato di tre termini, che, seppur perfettamente complementari, hanno un’accezione molto diversa, soprattutto per gli studi della psicologia del lavoro e per gli orientamenti applicativi correlati: pericolo, rischio, rischiosità.
PERICOLO: proprietà o qualità intrinseca di una determinata entità (p. es. materiali o attrezzature, metodi e pratiche di lavoro) avente il potenziale di causare danni.
Il pericolo può essere descritto, giacché aspetto oggettivo dell’individuazione di aree di pericolo nelle attività pubbliche o private. Ne esistono varie tipologie, ossia il pericolo ambientale, biologico, chimico, fisico e del sistema organizzativo.
RISCHIO: probabilità che sia raggiunto il livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego e/o di esposizione (probabilità che si verifichi un evento dannoso e/o nocivo).
Possibilità che un evento pericoloso (morte, lesione o danno) dovuto all’esposizione ad un agente chimico o fisico si manifesti in seguito a specifiche condizioni. Il rischio accettabile è il Rischio che si ritiene sufficientemente basso da essere tollerato al fine di ottenere un qualche vantaggio.
Il rischio si valuta in relazione agli esiti associabili probabilisticamente, alla descrizione del pericolo. Alla valutazione del rischio sono associate tutte le azioni di prevenzione e protezione in grado di ridurre le probabilità stesse di infortunio, ossia di limitare le potenzialità dannose insite nella situazione di pericolo descritta. L’informazione, la formazione, i controlli periodici rientrano nell’ambito delle azioni associate alla valutazione del rischio.
RISCHIOSITÀ: è la percezione del rapporto esistente tra pericolo e rischio. In sostanza, è un elemento soggettivo in grado di determinare la percezione che una scelta/decisione possa arrecare un danno o risolversi in un vantaggio.
Da un punto di vista psicologico, è l’aspetto più importante. Laddove sussistano tutti i migliori requisiti e le migliori condizioni di sicurezza, il rischio di infortuni permane quando la percezione del rischio è inadeguata. Essa, quindi, consiste nella percezione soggettiva e gruppale del rapporto tra situazione di pericolo e possibili rischi conseguenti (Andreoni, 1997).
In quanto variabile soggettiva, essa è in grado di eludere tutte le forme di controllo, andando oltre tutte le catalogazioni sistematiche realizzate in ambito preventivo.
Da notare, inoltre, un’altra difficoltà connessa alla rischiosità, ossia la naturale diversità delle percezioni individuali nel determinare percezioni del rischio molto disomogenee.
Un pericolo oggettivo presente all’interno di un contesto lavorativo può, infatti, essere oggetto di valutazioni simili da parte di due soggetti diversi in termini di probabilità di incidente, ma possono tuttavia avere significati diversi per il soggetto percipiente, il che determina percezioni diverse e comportamenti diversi.
Un esempio: due persone conoscono bene la pericolosità di guidare una moto senza l’utilizzo del casco. Entrambe conoscono le probabili conseguenze di una caduta senza adeguata protezione della testa. (Uguale descrizione del pericolo, medesima valutazione del rischio). Tuttavia, esse si comportano in modo diverso: una indossa il casco, l’altra no. Perché?
È evidente che nonostante le informazioni possedute siano le stesse e che anche la consapevolezza del rischio connesso al mancato utilizzo del casco sia identica, entrano in gioco variabili percettive individuali che influiscono sulla decisione presa. Ad esempio, potrebbero essere variabili di natura culturale (pensiamo alla percentuale di incidenti mortali che avvengono ogni anno in certe zone dell’Italia meridionale, dove l’impiego del casco è meno usuale), o variabili contingenti (Quanti ragazzi sostengono di non usare il casco perché rovina la capigliatura? In quest’esempio, la persona che non attribuisce la stessa importanza al proprio aspetto estetico utilizza il casco, l’altra no). In pratica, entrano in gioco variabili soggettivamente rilevanti in grado di distorcere negativamente un’adeguata percezione del rischio.
Anche le dinamiche di gruppo, per quanto diverse dalle individuali, sono soggette ad uguali influenze.
Una percezione obiettiva del rischio sarebbe caratterizzata da una crescita direttamente proporzionale al livello di pericolo e di rischio.
Rilevazioni psicologiche, tuttavia, hanno dimostrato come la rischiosità, in quanto percezione soggettiva, segua una crescita diversa, per la quale a livelli bassi di pericolo si associano rischi più bassi del dovuto. Raggiunta una “quota” di percezione adeguata al rapporto pericolo/rischio, si configura una percezione tendenzialmente più alta della norma, fino, però al raggiungimento di un livello di assuefazione, che impedisce il riconoscimento della continua crescita della rischiosità teorica insita in una situazione di pericolo grave.
Graficamente, possiamo così riassumere:
La valutazione del rischio e la rischiosità intesa come percezione del rischio stesso, sono dunque due variabili determinanti nel configurarsi dell’ACCETTABILITÀ del rischio stesso.
L’accettabilità, come pre-attivazione della volontà, è dunque una “rappresentazione psicologica e cognitiva delle opzioni possibili che ci si presentano di fronte ad un evento rischioso” (Andreoni, Marocci; 1997) influenzata da numerose variabili etiche, culturali, organizzative, economiche, affettive, razionali consce e inconsce. Ad essa è direttamente correlata la decisione e l’azione volitiva intrapresa.
L’ATTENZIONE
Strettamente correlata al rischio, è anche l’attenzione.
L’errore umano è normalmente spiegato attraverso il ricorso ad una sua carenza, presentatasi durante l’esecuzione di un’azione.
Il ricorso dell’individuo a statistiche basate sul senso comune (le cosiddette euristiche) induce immediatamente un calo attentivo, a causa della tendenza ad affidarsi a quanto è avvenuto in passato, a dati, quindi, normalmente privi di una qualunque significatività statistica.
Il calo attentivo, tuttavia, è strettamente legato anche all’abituazione, ossia al processo di assuefazione che si presenta a seguito della ripetizione delle azioni, o dell’esposizione ripetuta a determinati stimoli che diminuiscono anche la reattività fisica dell’individuo all’eventuale pericolo.
In particolare, possiamo rilevare come in molti compiti automatici e ripetitivi, la nostra attenzione può scambiare il compito primario per secondario deviando le nostre risorse attentive verso un altro campo mentale, facilitando l’insorgere dell’incidente (Marocci, 2001).
Lo spostamento delle risorse attentive può essere determinato anche da altri elementi oltre l’abituazione, che riassumiamo in:
1. preoccupazioni personali
2. competitività interpersonali
3. eccessiva fiducia nella tecnologia e nei sistemi di sicurezza
Preoccupazioni personali e competitività interpersonale: gli studi psicologici hanno dimostrato che la capacità attentiva di un individuo è sostanzialmente limitata, presupponendo l’impossibilità da parte di un soggetto di effettuare in modo adeguato più operazioni simultaneamente.
L’attenzione selettiva, già a partire da Broadbent (1958) è stata oggetto di approfondimenti. Lo studioso, in sostanza affermava che l’individuo ha un unico processore a capacità limitata e che le risorse attentive vengono spostate da un compito all’altro mediante un processo di tutto o http:\\/\\/psicolab.neta.
Studi successivi, come quelli degli studiosi delle capacità, sostengono che le risorse attentive possono essere distribuite su più compiti, nonostante la qualità dell’azione esercitata su ciascuno di essi risulti inferiore.
In Tale senso la natura del compito effettuato ha un’evidente rilevanza. Due compiti possono somigliarsi, quindi interferire l’uno con l’esecuzione dell’altro, in quanto usano il medesimo canale sensoriale (ad esempio visivo), oppure condividono qualche stadio del processamento dell’informazione. Possono avere in comune, inoltre, lo stesso meccanismo di risposta (per esempio verbale) (Wickens 1984). In tutti questi casi, sia che si tratti di condivisione di determinati stadi di processamento sia che si tratti di competizione per particolari meccanismi, si può parlare d’interferenza strutturale tra i due compiti. Esiste, però, anche un’interferenza da risorse che si verifica quando non c’è, tra i due compiti, competizione per alcun processo o meccanismo. In questo caso il fenomeno si può attribuire al fatto che qualsiasi operazione mentale, per essere svolta in modo ottimale, richiede una certa “dose” d’attenzione. Infatti, se si presuppone l’esistenza di una capacità centrale che può essere utilizzata per una vasta gamma di operazioni mentali, si presuppone anche che tale capacità sia limitata. La qualità dell’esecuzione dei due compiti dipende, quindi, dalla quantità di risorse che ciascun compito richiede. Secondo tale prospettiva, solo se le richieste dei due compiti non eccedono le risorse complessive del sistema essi non interferiscono l’uno con l’altro e possono essere svolti in maniera ottimale. In questa prospettiva si inserisce la teoria di Kahneman che ha in qualche modo integrato le due prospettive precedenti facendo riferimento all’importanza dell’attivazione fisiologica in compiti attentivi.
Le risorse dell’attenzione, in pratica, sarebbero direttamente proporzionali all’entità delle richieste che provengono dall’esterno, ma, giacché dotate di un limite massimo, determinano un’interferenza tra i compiti quando le richieste eccedono la capacità attentiva totale.
Facile dedurre il legame con la sicurezza sui luoghi di lavoro. In caso di svolgimento di una prestazione, la qualità e la sicurezza di quest’ultima sono fortemente condizionate dal “carico” degli stimoli cui è sottoposto l’esecutore dell’azione. Preoccupazioni o competitività interpersonale facilitano la distrazione, ossia la richiesta di risorse attentive su più compiti (es. azione+analisi dell’azione del competitore) che riducono la quantità di attenzione investita sull’azione principale svolta. Da qui il rischio di infortunio. Stesso destino nel caso di una serie di preoccupazioni che impegnano cognitivamente il soggetto, ad esempio, in merito ad una decisione importante da prendere, a difficoltà professionali contingenti, a problematiche private, etc.
Fiducia nella tecnologia: Per quanto concerne il terzo punto, ossia l’eccessiva fiducia nella tecnologia e nei sistemi di sicurezza, possiamo spiegarne l’importanza ricorrendo al concetto d sicurezza burocratica che chiarisce quale sia il motivo per cui pur in assenza di comportamenti rischiosi ed in presenza di opportune informazioni e di sistemi di sicurezza adeguati, il rischio di infortuni può essere ugualmente elevato. In sostanza, la presenza di meccanismi automatici o elettronici di controllo, induce nel soggetto un falso senso di sicurezza che determina una deviazione dell’attenzione dal compito primario verso compiti secondari. La motivazione utile a rendere efficiente l’azione esercitata viene meno e la probabilità di incidenti aumenta.
Lo schema seguente (Andreoni, 1997) chiarisce quanto esposto, spiegando tra l’altro, anche altri aspetti del rapporto tra assunzione di un comportamento rischioso e informazioni necessarie alla prevenzione:
In sostanza, quello che viene eliminato a causa della sicurezza burocratica, come sostiene lo stesso Andreoni, è l’accettabilità del rischio.
Lavorare utilizzando un macchinario ritenuto sicuro, guidare un veicolo dotato dei più avanzati sistemi di sicurezza facilita l’insorgere dell’infortunio.
Un altro aspetto importante nell’analisi del ruolo dell’attenzione negli infortuni è il rilievo del fatto che buona parte degli incidenti si verifichi alla fine dell’esecuzione di un compito. L’avvicinarsi dell’obiettivo (fine del turno di lavoro, ad esempio) facilita il calo dell’attenzione.
LA MOTIVAZIONE
La motivazione nella dinamica dell’infortunio ha notevole rilevanza soprattutto in relazione al significato che essa assume nella scelta da parte del soggetto di intraprendere azioni pericolose.
La motivazione, che si riferisce all’attivazione, alla direzione e alla persistenza del comportamento (Barry e Houston, 1999) influisce notevolmente sulla decisione, laddove il raggiungimento dell’obiettivo determini un certo grado di soddisfazione.
Ma dove sta la soddisfazione nell’assunzione di un rischio?
È noto che il rischio viene assunto da un soggetto in una situazione stabile e continuativa, nella quale il rischio stesso rappresenta una variazione alla costanza, ossia un tentativo di uscire dalla ripetitività attraverso la ricerca di un compiacimento per l’azione attuata ed il risultato ottenuto.
In sostanza la lotta alla noia e la ricerca di successo sono fattori intervenienti nella dinamica dell’accettazione del rischio.
In particolare, nel caso della motivazione al successo, il rischio accettato è sempre correlato alle possibilità di successo di un’azione svolta e non in modo direttamente proporzionale.
Una persona motivata al successo è disposta ad adottare determinati comportamenti laddove, seppur con probabilità non massimale, esiste una forte possibilità di successo, a cui è associata la soddisfazione, la gratificazione, il riconoscimento.
Esemplificative le ricerche di McClelland e Atkinson che hanno sostenuto l’andamento ad “U” rovesciata del grado di motivazione di un individuo in rapporto alle probabilità di successo.
In sostanza, la motivazione cresce finché le possibilità di successo arrivano ad un 50%, dopodiché diminuisce, anche al nuovo aumentare delle possibilità di successo stessa.