Sempre più persone lamentano il fatto di non riuscire più ad approcciarsi alla realtà di tutti i giorni con serenità, slancio ed entusiasmo. I sintomi sono quelli legati alla sfiducia, al desiderio di chiusura ed incapacità di aprirsi con serenità verso nuove esperienze.
Andando a fondo in queste argomentazioni, emerge una certa tendenza a percepire sé stessi in base alle aspettative altrui, all’ approvazione degli altri e quindi al voler soddisfare i bisogni di chi si ha accanto per sentirsi degni di affetto e stima.
Come è possibile orientarsi verso un cambiamento di prospettiva della propria vita, rimettendo al centro sé stessi e smettendo di rincorrere affannosamente il bisogno di approvazione degli altri?
Possono essere rimessi in discussione vecchi equilibri per rigenerarne di nuovi più funzionali e soddisfacenti?
Il dott. Andrea Guerrini, psicologo e pedagogista di Empoli, presidente dell’associazione culturale “Istituto Superiore di scienze pedagogiche filosofiche e bioenergetiche” ha dato vita ad un protocollo, denominato “I sentieri dell’anima”, basato su un pacchetto di otto incontri che consentono ai partecipanti di conoscere in maniera più approfondita la propria struttura caratteriale e lavorare sui blocchi energetici e le tensioni muscolari che spesso impediscono di vivere in maniera serena e gratificante la vita di tutti i giorni.
Si tratta di ridefinire il senso di sé recuperando il radicamento e la centratura del proprio sentire, spostando l’asse dell’attenzione alla propria bilancia emotiva, ristabilendo il focus sulle priorità personali anziché su quelle altrui.
Intervistatore: dott. Guerrini, che cosa propone con questi incontri?
Dott. Guerrini: il mio obiettivo è quello di favorire l’apertura di spiragli all’interno delle tensioni psicofisiche accumulate dalle forti esperienze ansiogene e stressanti derivate dal desiderio incontrollabile di dover sentire l’altro appresso a sé per non sentire smarrire il senso di sé è di auto appartenenza.
Così facendo le persone si sentono schiave delle reazioni altrui, come se l’accettazione e la stima di sé stessi dipendesse totalmente dal giudizio dell’altro e dalla sua approvazione.
Tutto questo contribuisce a congelare emozioni importanti dentro sé stessi, impedendo di sperimentare autentica gioia e pienezza di vivere ma solo ansia da separazione, paura dell’abbandono, frustrazione, bassa stima di sé, rabbia ed autocolpevolizzazione.
Intervistatore: che cosa propone per provare ad uscire dal senso di dipendere affettivamente dagli altri e recuperare il senso di sé?
Dott. Guerrini: Dagli studi di Willhelm Reich prima (con l’individuazione dei sette segmenti corporei, ovvero quello oculare, orale, cervicale, toracico, diaframmatico, addominale e pelvico) e di Alexander Lowen dopo, si è arrivati a definire cinque strutture caratteriali fondamentali: orale, masochista, schizoide, psicopatica e rigida.
Per ogni partecipante è importante capire la propria struttura caratteriale e le sue sfumature, cercando di comprendere i meccanismi di funzionamento emozionale soggettivo, andando ad indagare le sensazioni, i vissuti ed i sequestri emozionali.
Riguardo a questi ultimi è importante essere consapevoli del fatto che, spesso, non siamo in grado di esperire tutte le sfumature emozionali, infatti, accade che a causa delle esperienze di vita trascorse, come quelle che ci hanno progressivamente condizionato fino al punto di non sentirsi autonomi ma vincolati al giudizio altrui ed ai ricatti emotivi, molti non riescono a sentire ed esprimere alcuna emozione legata alla gioia ed alla pienezza di vivere ma solo ansia anticipatoria e paura dell’abbandono
In sintesi, molti pazienti (o praticanti delle sezioni di lavoro corporeo) lamentano il fatto di vivere all’interno di un’unica modalità emozionale, come se le loro orecchie riuscissero a cogliere soltanto alcune vibrazioni acustiche e la loro voce ad emettere soltanto alcuni suoni. Ecco allora che alcuni rimangono intrappolati nella tristezza, diventando schiavi del senso di perdita, vittime di pensieri malinconici, costringendo gli occhi a cogliere solo le grigie sfumature del mondo circostante. Altri invece sono sequestrati dalla rabbia, costruendo le relazioni interpersonali sulle note dell’aggressività, come se la colonna sonora della loro vita fosse sempre improntata nella narrazione di scene di lotta e conflitti di interesse perenni.
Accade inoltre che il dolore ed il senso di impotenza prendano il sopravvento e diventino abili conducenti del treno esistenziale di molti, alimentando pensieri distorti che hanno come leitmotiv il senso nichilistico di inutilità, di abbandono e disvalore del mondo.
Per molti è impossibile esperire la gioia, emozione che ha a che fare con il lasciar andare con il perdere il controllo. Nella nostra società, dove occorre sempre e comunque guardarsi le spalle, dove vige imperante il motto “fidarsi è bene non fidarsi è meglio”, è difficile attraversare la paura, accoglierla e cedere, permettendo di abbandonarsi al corpo e rinunciando alla lotta fra sé e il dover essere, fra fragilità e corazza, fra vergogna ed apertura al mondo.
La resa è allentamento e sblocco delle tensioni, figlie dei conflitti perenni fra ciò che sentiamo e ciò che ci è impossibile accogliere ed esprimere. Lasciar andare significa cadere, che è la metafora dell’accettazione di ciò che si è, svincolati dai presupposti ereditati da un dover essere inteso come missione, come mandato anche genitoriale. L’”educazione nera”, quella manipolatrice non votata a far diventare autenticamente sé stessi ma a riflettere inautenticamente l’immagine delle aspettative irrisolte di altri, rappresenta il peso di un fardello identitario che non ci appartiene ma che è frutto di aspettative e desideri di figure adulte accudenti non pienamente risolte (sul piano professionale, relazionale, sentimentale, ecc.).
Disfarsi del fardello non è semplice perché siamo abbagliati dall’illusione che i blocchi e le tensioni (ovvero il peso che ci portiamo appresso) siano il nostro costrutto identitario. Mette in crisi dover accettare di disfarsi di sé stessi, sarebbe una sorta di suicidio anche perché un processo del genere costringerebbe ad affrontare un forte senso di colpa, un’accettazione che ciò che ci portiamo appresso è la risultante di anni trascorsi ad accomodarsi ed adattarsi ad una manipolazione finalizzata al dover essere per il nostro stesso bene, al ricatto emotivo che se non si rinuncia a sé stessi e ad accontentare le richieste, significa che non siamo degni di essere amati.
La risultante di questo processo di rinunciare presto a sé stessi si esprime in una varietà di tensioni e rigidità caratteriali che possono essere riassunti nel motto del masochista (sarò come tu mi vuoi), nel motto schizoide (non ho il diritto di esistere), dell’orale (io non ho bisogno), dello psicopatico (non posso essere me stesso), del rigido (non so amare).
Intervistatore: come avviene l’indagine della propria struttura caratteriale?
Dott. Guerrini: ciò che avviene a livello psichico si riverbera anche a livello corporeo e viceversa. Le tensioni muscolari, le rigidità, il modo di porsi, la postura ecc., fanno da spia alla corazza caratteriale, intesa anche come risultante fisica delle proprie esperienze trascorse.
Riflettere su questo aiuta a comprendere come ognuno di noi si approccia alla realtà e come da questa ci si difenda attivando meccanismi inconsci per meglio preservarsi dall’angoscia.
Quando la realtà esterna è avvertita in modo minaccioso o come il punto di riferimento verso il quale dipendere (come nelle relazioni disfunzionali) ogni persona reagisce diversamente anche in relazione alla propria struttura caratteriale. Conoscere il carattere significa avere la possibilità di allentare, rompere i blocchi, aprire quelle contratture che rendono le cariche emozionali costrette all’interno delle fasce muscolari rigidamente serrate