“Internet addiction, Internet pathological use, Internet dependency”, sono termini utilizzati per descrivere la condizione di coloro che sentono il bisogno di aggiornarsi e scoprire le novità sui Social isolandosi dal mondo reale e rifugiandosi in quello virtuale (fatto di byte, social e videogiochi online). Internet non è una sostanza intossicante che si assume (come la cocaina) e non uccide (come fanno eroina e alcool) comportando anche importanti debiti economici (come invece capita ai ludopatici). Ma la compulsione ad estrarre dalla tasca lo smartphone si apprende proprio nello stesso modo in cui si impara a bere, a giocare d’azzardo e a consumare sostanze (Vigna-Tagliantia et al. 2020). Come esseri umani, è nella nostra natura ripetere comportamenti ai quali susseguono conseguenze positive o quelli che alleviano le condizioni negative, fino a farcene diventare dipendenti. In fondo, consumare alcool e droghe permette di fuggire dalla pesantezza della realtà, dalle responsabilità e dalle emozioni negative che ne fanno inevitabilmente parte. Questo risulta essere lo stesso effetto che fa, ad alcuni, il fatto di perdersi nei social. Ed ecco che scorrere i post, scrivere un tweet o partecipare ad una chat di gruppo distrae dall’ansia, dall’esclusione, dalla solitudine e fa passare la paura del vuoto di attenzioni (I sintomi della dipendenza da internet e da social network, 2019, p. 1-4).
La dipendenza da Social Network è stata definita un’abbuffata tecnologica, il cui termine richiama inevitabilmente il disturbo dell’alimentazione incontrollata, caratterizzata da episodi di abbuffate di cibo. In questo modo si accosta il comportamento alimentare (binge eating) a quello tecnologico (binge watching). Proprio come nei disturbi da alimentazione incontrollata, nella dipendenza da Internet ed in particolare da social network, assistiamo ad un incontrollabile impulso a mettere in atto una determinata azione: in questo caso, controllare le notifiche, scorrere la bacheca, scrivere messaggi e ricominciare da capo. Nel binge eating e nel binge watching, il corpo non reagisce più sulla base dei bisogni fisiologici, bensì di vere e proprie compulsioni automatizzate che esulano dalla consapevolezza, impegnando la persona per un tempo eccessivo (soprattutto in relazione ad altre attività come lo studio, la professione o la vita sociale). Si tratta di una conseguenza del fatto che, come nel corrispettivo alimentare, l’episodio di abbuffata porta spesso alla perdita di controllo e cognizione del tempo, con conseguente isolamento e alienazione. In caso non sia possibile soddisfare questi impulsi, invece, scatta una sorta di “astinenza psicologica”, in cui la frustrazione genera rabbia e sbalzi d’umore. Per difendere questi comportamenti divenuti così fondamentali, la persona adotta delle strategie tipiche proprie dei disturbi alimentari e delle dipendenze, come per esempio mentire o sfruttare le ore notturne per non essere ostacolati. Prerogativa dei social di condivisione come Instagram, Facebook o il nuovissimo Tik Tok, è il rinforzo positivo dato dalla conferma sociale. Ricevere un like indica apprezzamento, conferma ed esistenza nel codice dei social. È grazie a questa attribuzione condivisa di significato che ogni like andrà a stimolare la produzione di dopamina nei circuiti della ricompensa (gli stessi attivati dal cibo, dal piacere ed anche dalle droghe); tale rilascio di dopamina associato allo schermo acceso su Instagram aumenterà a sua volta la probabilità di ripetere quel comportamento in futuro, generando un circolo vizioso. Inoltre, favorita dall’anonimato che la rete offre e dal senso di onnipotenza e di protezione (sul web è possibile fingere sia di essere un’altra persona sia che i problemi reali non esistano), arrivando a un vero e proprio isolamento sociale e perdendo i contatti con la realtà. Si crea un circolo vizioso che spinge a cercare conforto, svago, distrazione e sollievo in rete, accantonando i veri disagi, che così facendo restano irrisolti per ripresentarsi però a breve scatenando nuovamente la necessità di ricollegarsi in rete.
I sintomi psico-fisiologici più evidenti sono il mal di testa, la tachicardia, i disturbi alla vista, l’insonnia, la confusione mentale e le amnesie. I social permettono un momento di alienazione dalla realtà, una forma di svago, ma l’importante è l’uso che ne facciamo, considerato che il rischio di abuso è altrettanto facile. Infatti, si registrano sempre più situazioni che, anche nel caso dei social network, si basano sui soliti meccanismi che regolano le classiche dipendenze già conosciute (es. quelle da sostanze come alcol, droghe, ecc.), come quelli del piacere e della soddisfazione. Inoltre, si va incontro ai fenomeni già ben noti di tolleranza e assuefazione (il bisogno di aumentare il tempo in cui si sta connessi per arrivare a provare la stessa soddisfazione), astinenza (intenso disagio psico-fisico se non c’è possibilità di farne uso) e craving, cioè pensieri fissi e desiderio incontrollabile. A proposito dell’astinenza, è stato coniato un termine apposito, la “nomofobia” (dall’inglese “no-mobile”), o sindrome da disconnessione, che si verifica nei soggetti dipendenti quando non possono collegarsi ad internet per svariati motivi (non c’è linea, c’è sovraccarico, hanno lasciato a casa lo smartphone, hanno la batteria scarica, ecc.) ed è caratterizzata da sintomi di ansia e panico, per la paura di non aver più informazioni o rimanere soli (Calamai 2015, p. 1-4). A rendere precarie e leggere le relazioni sociali nei social network è anche un altro possibile effetto dell’uso massiccio dei social media: l’analfabetismo emotivo. Nell’interazione mediata, la fisicità del corpo è sostituita da quella del medium; ciò priva il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento e comprensione delle emozioni proprie e altrui con effetti che vanno dal disinteresse emotivo alla psicopatia. Con l’espressione analfabetismo emotivo “emozional litteracy” Goleman riconosce:
1.la mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti ad esse associati;
2.la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione;
3.l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui – non riconosciute e comprese – e con i comportamenti che da esse scaturiscono.
Un fattore di incremento dell’analfabetismo emotivo è proprio l’utilizzo massiccio dei media che favoriscono un modello di relazioni mediate, privando il soggetto di quegli script utili alla lettura e all’applicazione dei comportamenti sociali. A venir meno è soprattutto la capacità di riconoscere le emozioni dell’altro e, di riflesso, di comprendere le proprie: ciò in prima istanza porta al disinteresse emotivo. Le persone che comunicano spesso tramite la tecnologia hanno quindi disimparato a riconoscere la ricchezza della comunicazione diretta (le sfumature importanti offerte dalla comunicazione non verbale). Tuttavia, il social network spesso facilita l’espressione di sé, abbattendo il timore del giudizio immediato. Svelare se stessi ad un social network in ogni caso non offre la giusta ricompensa relazionale: l’uomo è fatto di emozioni e pensieri fluidi. I pensieri e le emozioni sono alla continua ricerca di risposte e conferme che sono frustrate dalla comunicazione mediata (Goleman e Kabat-Zinn 2005). A questa esigenza pare rispondere adeguatamente il modello della cosiddetta Life Skills Based Education, (LSBE) che cerca di proporre un’alternativa, una “storia” diversa, rispetto a quella della dipendenza. Il modello, fortemente sostenuto dall’OMS, dall’Istituto USA sulla tossicodipendenza (National Institute on Drug Abuse – NIDA) e dal Centro europeo per il controllo della droga e della tossicodipendenza (European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction – EMCDDA) si rivolge agli adolescenti e stimola la formazione di competenze e comportamenti adattivi e positivi.
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Patrizia
Splendido articolo, estremamente interessante!