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Il Morbo di Parkinson: Patogenesi, Diagnosi e Clinica

Definizione e cenni storici

Il morbo di Parkinson è un disturbo progressivo caratterizzato da lentezza e povertà di movimenti volontari accompagnati da tremore e rigidità muscolare.
Il DSM-IV-TR [2000] classifica la malattia di Parkinson tra le Malattie del sistema nervoso riportate, secondo i codici dell’ICD-10 [1993], nelle Condizioni Mediche Generali. [Text Revised, American Psychiatric Association, 2000; World Health Organization, 1993].
Nel 1817, il medico di Hoxton James Parkinson notò nelle strade di Londra un piccolo gruppo di pazienti, essi si muovevano piuttosto lentamente, mostrando tremori regolari delle mani e della faccia quando erano fermi e camminavano con un portamento rigido. [Rosenzweig, et al, 1998].
La descrizione del disturbo motorio che ora porta il suo nome è così accurata e sintetica da essere tuttora attuale:
“… moto tremolante involontario, con forza muscolare ridotta, di parti non in azione, anche quando vengono sorrette; con propensione a piegare il tronco in avanti e a passare da un’andatura al passo alla corsa; assenza di alterazioni sensitive e dell’intelletto” [Parkinson, 1817].
Come si può notare, nella sua descrizione originale, Parkinson escluse che fosse tipica della malattia la compromissione delle capacità cognitive, affermando l’assenza di alterazioni dello stato mentale (“the senses and the intellect remain uninjured”-1817).
In realtà egli stesso si era gia reso conto che, anche se non dementi, i suoi malati potevano essere affetti da numerosi sintomi riguardanti la sfera cognitiva ed affettiva.
Per quanto riguarda la presenza di disturbi cognitivi, si attribuisce a Trousseau ed a Charcot il merito di averli notati per primi, verso la metà del secolo scorso.
Ball, psichiatra a Sainte Anne, fu probabilmente il primo a registrare la frequenza delle manifestazioni psichiatriche [Ball, 1882].

Riscontri anatomopatologici

Il quadro patologico descritto da James Parkinson come “shaking palsy” rappresenta la forma più frequente e meglio definita di disordine del movimento, causato da alterazioni a carico del circuito motorio dei nuclei della base. Notevoli progressi nella conoscenza delle malattie dei nuclei della base sono stati conseguiti a partire dalla fine degli anni ’50, quando Arviol Carlsson dimostrò che l’80% della dopamina cerebrale si trova nei nuclei della base [Carlsson, 1959]. In seguito, Oleh Hornykiewicz osservò che i cervelli dei soggetti che avevano sofferto di morbo di Parkinson presentavano bassi livelli di dopamina, norepinefrina e serotonina; ma che la dopamina era quella ridotta in modo più drastico [Hornykiewicz, 1966].
Il morbo di Parkinson quindi è divenuto il primo esempio di malattia neurologica associata con la carenza di un particolare neurotrasmettitore.
Questa scoperta ha fornito l’impulso per una serie di ricerche sull’alterazione in altre forme patologiche neurologiche, come la depressione, la schizofrenia e la demenza.
Oltre alla riduzione dei livelli cerebrali di dopamina, i pazienti affetti da morbo di Parkinson mostrano una degenerazione progressiva delle cellule nervose a livello dei due nuclei pigmentati del tronco dell’encefalo: la substantia nigra e il locus coeruleus. Poiché la pars compacta della substantia nigra contiene una considerevole parte dei neuroni dopaminergici cerebrali, queste osservazioni suggeriscono che la via dopaminergica dalla substantia nigra allo striato sia interessata dall’alterazione patologica che determina l’insorgenza del morbo di Parkinson [Coté, et al., 1994].
La perdita di cellule in questa area è continua ma i sintomi compaiono solamente dopo una perdita estesa.
Per anni non ci fu alcun trattamento per il morbo di Parkinson ma, grazie alla scoperta della diminuzione dei livelli di dopamina nella substantia nigra, una terapia farmacologia si sviluppò alla fine degli anni ’60, quando Walter Birkmayer e Hornykiewicz ipotizzarono che i pazienti affetti da morbo di Parkinson avrebbero potuto trarre giovamento da un eventuale normalizzazione dei livelli cerebrali di dopamina [Birkmayer, et al., 1976]. Di conseguenza iniziarono a somministrare una sostanza chiamata L-DOPA (L-3,4-diidrossifenilalanina). Precursore della dopamina, tale sostanza è in grado di ridurre marcatamente i sintomi nei pazienti con Parkinson ma la degenerazione delle cellule nervose della substantia nigra prosegue nel corso degli anni ed è responsabile dell’evoluzione della malattia.

Patogenesi

Le cause di questa patologia rimangono sconosciute, sebbene alcune ricerche siano a favore di una patogenesi del disturbo provocata da fattori ambientali.
Un primo dato a favore di tale ipotesi è la presenza di una sindrome parkinsoniana secondaria ad encefalite. Un parkinsonismo postencefalico si è manifestato in molti pazienti precedentemente colpiti da encefalite letargica, nel corso dell’epidemia degli anni che vanno dal 1915 al 1926. Sebbene studi autoptici eseguiti allora non lasciassero dubbi sulla natura infiammatoria di questa patologia, nessun agente infettivo fu mai isolato. Un’ idea diffusa tra i neurologi era ritenere che, se un agente infettivo provocava una malattia con sintomatologia parkinsoniana, allora probabilmente un’infezione era responsabile anche del morbo di Parkinson. Tuttavia, studi serologici ed epidemiologici hanno escluso una eziologia virale [Hopkins, 1996].
Un ulteriore dato che emerge da studi epidemiologici è la minor prevalenza della malattia nei pazienti fumatori rispetto a coloro che non hanno mai fumato. Questo lascia supporre che la nicotina o qualche altro componente della sigaretta possa assolvere ad una funzione di protezione di sviluppo della malattia [Hellenbrand, et al., 1997; Tzourio, et al., 1997].
Una importante prova a favore di un’eziologia ambientale è stata l’identificazione della sostanza tossica MPTP (1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina) quale causa di una patologia irreversibile simile al Parkinson [Langston, 1985].
Il ruolo del MPTP venne alla luce alla fine degli anni 70, quando fu riscontrato che numerosi pazienti che contrassero il Parkinson in giovane età avevano fatto uso di sostanze stupefacenti contenenti MPTP; studi sui primati confermarono l’insorgere della malattia in seguito alla somministrazione di tale principio.
L’opinione che prevale attualmente è che la malattia di Parkinson possa essere la manifestazione di diverse condizioni che hanno un comune percorso finale.
I soggetti possono essere affetti in modo diverso da una combinazione di fattori genetici e ambientali.
Per i parenti di primo grado di soggetti affetti da Parkinson il rischio di contrarre la malattia può essere due volte superiore a quello della popolazione generale [Marder, et al., 1996; Jarman, et al., 1999; Lazzarini, et al., 1994].
Sebbene le varietà solo genetiche comprendono probabilmente una piccola minoranza di soggetti con malattia di Parkinson, mutazioni genetiche identificate recentemente che riguardano più precisamente il gene alpha-synucleina [Polymeropoulos, et al., 1997; Kruger, et al., 1998], e il gene parkina [Kitada, et al., 1998] hanno fornito degli indizi preziosi sull’eziologia della degenerazione neuronale e hanno permesso di riconoscere l’importanza di un’alterazione del metabolismo proteico nella malattia di Parkinson [Huang, et al., 2003].
Il gene parkina sul cromosoma 6 può essere associato alla malattia in famiglie con almeno un membro affetto da Parkinson a esordio precoce, mentre molteplici fattori genetici possono essere coinvolti nella forma idiopatica a esordio tardivo [Scott, et al., 2001].

Epidemiologia

L’incidenza del morbo di Parkinson è di circa 20 soggetti colpiti in una popolazione di 100.000 individui.
La prevalenza è di 200 casi per 100.000 persone, con una durata media della malattia dall’esordio al decesso di 11 anni.
Secondo recenti stime da parte dell’ Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’incidenza dei malati di Parkinson in Europa è dello 0,5% , per un totale di circa un milione di persone.
In Italia si può ritenere che esistano attualmente 200.000 persone affette da questa malattia, che arriveranno ad essere nel 2005 circa 250.000.
L’età media di insorgenza del Parkinson è di 60 anni. Nel 5-10% dei soggetti che sviluppano la malattia, questa si manifesta prima dei 50 anni e, in alcuni casi, prima dei 40 anni (esordio giovanile).
Nell’adulto sano la perdita di cellule e pigmento nella substantia nigra è maggiore proprio intorno al sessantesimo anno di età. Essa costituisce dunque un fattore eziologico importante.
La prevalenza della malattia correlata all’età mostra come il morbo di Parkinson colpisca maggiormente i soggetti più anziani [Mutch, et al., 1986].
Nel mondo la prevalenza aggiustata in base all’età è 1%, in Europa 1,6%, andando da 0,6% all’età di 60-64 anni fino a 3,5% all’età di 85-89 anni [Zhang, et al., 1993; De Rijk, et al., 1997].
In uno studio di coorte su 4.341 soggetti di età compresa tra 65 e 84 anni, seguiti per una media di tre anni, l’incidenza media annuale standardizzata per età alla popolazione italiana era di 326,3 per 100.000, con tassi maggiori nel sesso maschile [Baldereschi, et al., 2000 ].
Il morbo di Parkinson è lievemente più frequente negli uomini, ma, siccome le donne vivono più a lungo e la prevalenza aumenta con l’età, ci sono più donne anziane affette dalla malattia.

Diagnosi

La diagnosi di morbo di Parkinson rimane prevalentemente clinica e si basa sulla presenza della caratteristica triade rigidità extrapiramidale, tremore e bradicinesia; la diagnosi è suffragata da una buona risposta alla terapia dopaminergica e dal coinvolgimento asimmetrico degli arti all’esordio [Gelb, et al., 1999].
E’ importante che il decorso della malattia sia lento, e non vi siano cause esterne (uso di MPTP o di farmaci che inducono sintomi parkinsoniani, altre patologie a sintomatologia parkinsoniana).
La registrazione dei segni clinici del paziente avviene mediante l’uso di scale di valutazione internazionali. Una delle più usate è la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale [Fahn et al., 1987].
L’uso delle neuroimmagini consente una conferma diagnostica soprattutto nei casi in cui la diagnosi è dubbia per la presenza di segni clinici atipici.
E’ bene ricordare che l’esame autoptico dei pazienti affetti da morbo di Parkinson rivela, oltre alla perdita di neuroni a livello della substantia nigra e del locus coeruleus, la presenza dei cosiddetti corpi di Lewy. Quindi la diagnosi più importante di Parkinson idiopatico avviene, post-mortem, nel rinvenimento di corpi di Lewy nelle cellule della substantia nigra.
Nel 75% circa dei pazienti con diagnosi di Parkinson viene rinvenuta, all’autopsia, la presenza di corpi di Lewy. Il fatto che vi siano comunque 25% di pazienti ove non si riscontra la presenza di corpi di Lewy rende tale reperto eziologico fondamentale ma non specifico.
Affinché i primi sintomi di Parkinson appaiano, è necessario che sia danneggiato almeno il 60% delle cellule della substantia nigra e vi sia una diminuzione dell’80% della dopamina nello striatum. Questo lascia supporre che la malattia insorga molto prima della comparsa dei sintomi e relativa diagnosi e che vi sia una consistente percentuale di popolazione che, pur in assenza di sintomi, sta sviuppando il morbo di Parkinson.
Tale fatto risulta estremamente importante, in quanto una diagnosi precoce del problema potrebbe indurre un tempestivo trattamento capace di rallentare significativamente il decorso.

Aspetti Clinici

DISTURBI MOTORI: il sintomo d’esordio nel 70% dei casi è rappresentato dal tremore. Il tremore parkinsoniano è caratteristicamente un tremore a riposo, che si riduce o scompare appena si esegue un movimento finalizzato; per lo più esordisce da un solo lato e può interessare l’una o l’altra mano.
Rallentamento nell’esecuzione del movimento e povertà o assenza di movimenti automatici, denominati rispettivamente bradicinesia ed ipocinesia o acinesia sono sintomi caratteristici della malattia.
La rigidità, conseguente all’aumentato tono muscolare, può essere presente agli arti, al collo e al tronco.
L’instabilità posturale si presenta più tardivamente nel corso della malattia. I pazienti con morbo di Parkinson perdono i riflessi di raddrizzamento, cosicché, se spinti od urtati con forza, facilmente cadono. La postura eretta è compromessa, per cui il paziente progressivamente si flette sul busto.
Le difficoltà di deambulazione si esprimono nella combinazione di rigidità delle gambe, bradicinesia e instabilità posturale.

DISTURBI COGNITIVI: la malattia di Parkinson presenta spesso un’associazione con deficit cognitivi specifici e con quadri di demenza.
Il DSM IV-TR [2000] classifica un tipo di Demenza Dovuta a Malattia di Parkinson. La sua caratteristica essenziale è la presenza di una demenza che si ritiene una conseguenza fisiologica diretta della malattia di Parkinson.
La demenza associata a malattia di Parkinson è caratterizzata da rallentamento cognitivo e motorio, da compromissione delle funzioni esecutive, e da deficit della memoria di recupero [Text Revised, American Psychiatric Association, 2000].
In circa il 10-15% dei pazienti con morbo di Parkinson si sviluppa una demenza. Il rischio di sviluppare una demenza in questi pazienti sembra favorito dall’età avanzata di esordio della malattia principale, dalla presenza di un disturbo depressivo e dal grado più elevato di disabilità motoria [Conti, et al., 1999].
Le caratteristiche della demenza nella malattia di Parkinson non sono uniformi. Si fa riferimento, in merito, alla “demenza sottocorticale”,categoria diagnostica che include, insieme ad altre patologie, il morbo di Parkinson [Della Sala, 1990].
Disturbi cognitivi sono una caratteristica comune del morbo di Parkinson idiopatico; essi si presentano con prevalenza del 40%, possono comparire anche in uno stadio iniziale della malattia ed in assenza di una vera demenza.

La bradifrenia o acinesia psichica, termine introdotto dal neurologo francese Naville nel 1922, viene usato per indicare molteplici difficoltà, intellettuali e psicologiche che, nei pazienti affetti da malattia di Parkinson, si evidenziano come perdita di concentrazione, incapacità a creare nessi logici, tendenza alla perseverazione e rallentamento generalizzato dei processi di pensiero [Boller, 1996].

Studi sperimentali hanno confermato che il morbo di Parkinson è accompagnato da un disturbo dell’attenzione, in particolare dell’attenzione sostenuta [Spinnler 1991; Alonso-Prieto, et al., 2003].
I risultati di studi dei potenziali evocati corticali evento-correlati, combinati ai dati derivanti da misurazioni neuropsicologiche sono stati rispettivamente interpretati come conferma della presenza di un disturbo di natura frontale della regolazione dei processi attenzionali e di un possibile deficit nei meccanismi frontali di controllo, mantenimento e shifting dell’attenzione [Stam, e coll., 1993; Caltagirone, e coll., 1989; Brown e Mardsen, 1988; Taylor, e coll., 1986].

Anomalie delle funzioni esecutive di pianificazione, problem solving e set-shifting sono disturbi cognitivi caratteristici della malattia di Parkinson [Mc Namara, 2003].

La memoria, e più precisamente la memoria di lavoro e le operazioni di recall e dating appaiono compromessi; i deficit interessano non tanto la capacità di memorizzare quanto la possibilità di accedere ai dati memorizzati.
Numerosi Autori hanno riscontrato prestazioni deficitarie della memoria a breve termine e verso compiti messi a punto per l’indagine della memoria di lavoro in pazienti affetti dalla malattia. [Panisset, e coll., 1994; Marini, et al., 2003; Kensinger, et al., 2003; Tamura, et al., 2003; Lewis, et al., 2003].
La memoria a lungo termine appare compromessa, specie per quanto riguarda la memoria episodica e la memoria procedurale [El-Awar, e coll., 1987; Saint-Cyr, e coll., 1988]. Saint Cyr et al. [1988] evidenziano la presenza negli stadi iniziali della malattia di deficit dell’apprendimento procedurale in presenza di memoria dichiarativa conservata; anch’essa diviene compromessa negli stadi più gravi della malattia.

Sebbene in pazienti non dementi disturbi del linguaggio non influiscano in genere sull’efficacia complessiva della comunicazione, essi caratterizzano la malattia di Parkinson. Tali disturbi riguardano la comprensione di frasi, il processo semantico e l’integrazione lessico-grammaticale.

Esistono dati che suggeriscono come alla base delle cadute di prestazione ai compiti proposti per la ricerca di disturbi visuo-spaziali, nel caso di pazienti non dementi, possa essere un generico aumento dei tempi di reazione, o comunque deficit di natura attentiva, e non un disturbo specifico delle funzioni visuo-spaziali, che non appaiono differire dalla norma [Della Sala e coll., 1986a; Della Sala, 1990].

DISTURBI PSICHIATRICI:
La più comune complicanza psichiatrica nel morbo di Parkinson è rappresentata dalla depressione. Sintomi depressivi sono presenti nel 25-40% dei casi e possono essere precedenti o concomitanti al quadro neurologico.
Si tratta per lo più di una depressione di lieve o moderata entità. Essa ha più spesso caratteristiche omogenee; più comuni sono i disturbi distimici e le depressioni maggiori, mentre il disturbo bipolare si ritrova eccezionalmente [Pavan, et al., 1999].
Quando la depressione compare in uno stadio iniziale della malattia e prima del caratteristico quadro sintomatologico motorio, la diagnosi differenziale di disturbo depressivo maggiore può essere difficoltosa.
Un recente studio ha confrontato i dati di pazienti affetti da Parkinson depressi con quelli di pazienti con depressione maggiore. La gravità dei sintomi depressivi era equivalente nei due gruppi [Merschdorf, et al., 2003].
Secondo alcuni Autori [Santamaria, e coll., 1986; Starkstein, et al., 1990; Starkstein, e coll., 1992; Uekermann, et al., 2003; Burn, 2002] la presenza di depressione si assocerebbe ad un più rapido declino cognitivo.
Il fatto che la depressione possa precedere il quadro neurologico, possa non essere correlata alla gravità della malattia e al quadro di inabilità funzionale, sia di intensità maggiore rispetto ad altre malattie croniche invalidanti, fa pensare ad una patogenesi endogena del quadro affettivo collegato alla malattia, anche se alcuni Autori ne hanno sostenuto una genesi reattiva o un’origine endogena concomitante ma separata [Pavan, et al. 1999].
Pertanto la depressione nella malattia di Parkinson è stata attribuita da parte di alcuni ricercatori alle conseguenze della diminuita capacità di movimento e al generale stato di stress conseguente a tale inabilità; da parti di altri, invece, a una diminuita capacità di risposta del sistema serotoninergico [Sano, et al., 1991].
I pazienti depressi con Parkinson mostrano livelli dei metaboliti della serotonina più bassi di quanto non accada ai pazienti con Parkinson non depressi.
La ridotta attività nella corteccia prefrontale suggerisce inoltre che l’alterazione dell’umore è associata a un danno a carico dei lobi frontali.
Il fenomeno è stato ampiamente studiato, anche la letteratura più recente oltre a confermare una più alta incidenza di depressione in pazienti affetti da morbo di Parkinson rispetto alla popolazione di controllo, riporta dati a supporto dell’ipotesi neurobiologica nell’origine della depressione nella malattia di Parkinson [Mc Donald, et al., 2003 ; Leentjens, et al., 2003].

Sono abbastanza comuni anche i disturbi ansiosi, per lo più disturbi fobici, come irrazionale paura di cadere e fobie sociali, ma anche quadri di ansia generalizzata e attacchi di panico.

Frequenti i disturbi psicotici quali allucinazioni specie visive e disturbi del pensiero, attribuiti alla terapia farmacologica.

I Parkinsonismi

Esistono forme cliniche che per molti aspetti assomigliano alla malattia di Parkinson, ma in realtà non lo sono.
Negli ultimi 10-15 anni un crescente interesse ha suscitato lo studio di queste forme particolari e la caratterizzazione clinica e patologica.
Il bagaglio di conoscenza così accumulato e l’avvento di nuove metodiche strumentali permette oggi di essere più precisi nel diagnosticare casi di parkinsonismo che in passato venivano classificati come morbo di Parkinson.
Un dubbio diagnostico va posto quando la modalità d’esordio è tipicamente monolaterale o sono presenti sintomi atipici, quando il decorso è rapido ed invalidante e quando non vi è buona risposta alla levodopa.
I parkinsonismi possono essere suddivisi in due gruppi principali: uno cosiddetto sintomatico (o secondario) in cui è riconoscibile una causa; l’altro definito primitivo, in cui la causa rimane sconosciuta.

Parkinsonismi primitivi – a causa sconosciuta:

•Malattia di Parkinson idiopatica (PD)
•Atrofia Multisistemica (MSA)
•Atrofia Olivo-Ponto-Cerebellare
•Malattia di Shy-Drager
•Degenerazione Striato-Nigrica (SND)
•Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP)
•Degenerazione Cortico-Basale (CBD)
•Malattia a corpi di Lewy diffusi

Parkinsonismi secondari – a causa conosciuta:

•Parkinsonismo Vasculopatico
•Parkinsonismo da Farmaci
•Parkinsonismo da Neurotossine
•Parkinsonismo Post-Traumatico
•Parkinsonismo da Idrocefalo Normoteso
•Parkinsonismo Post-encefalitico
•Parkinsonismo associato ad altre malattie neurologiche primitive
•Parkinsonismo Dismetabolico

Fra tutti i parkinsonismi la malattia di Parkinson è quella più diffusa, rappresentando circa il 65-70% di tali malattie.

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