Parliamo di pratiche filosofiche. Perché?
Non si parla mai di “pratiche psicologiche”, si dà per scontato che la psicologia ha una componente empirica che viene dall’osservazione o dall’auto-osservazione, ma questo non significa che trovi sempre una applicazione pratica da offrire alla gente, spesso anzi gli studi di psicologia trattano argomenti come la comunicazione con le orche assassine, le esperienze premorte, le sette sataniche, cose di cui la maggior parte delle persone non può e non intende fare esperienza.
Le pratiche filosofiche invece hanno ancora bisogno di qualificarsi così per spiegare alla gente che la filosofia, anche se non è roba che si mangia, tuttavia può interessare e aiutare anche chi non vuole leggere i libri dei filosofi.
Accade così che qualcuno apra uno studio e ci metta una targa in ottone su cui c’è scritto “Consulenza Filosofica” invece che “Psicoterapia” o “Laboratorio di analisi”; altri guidano dissertazioni sui conflitti, i sentimenti, la pace, non in una classe di scuola media ma in un bar (ed è quello che gli esperti indicano con l’espressione “cafè philo”); altri invitano a cena una trentina di persone in un ristorante e al posto del menu distribuisce una lista di argomenti su cui discutere; qualcuno si cimenta con i bambini delle elementari, altri ancora animano gruppi di discussione nelle cooperative sociali per consentire ai lavoratori di mettere a fuoco il senso della loro attività.
Molte di queste attività vanno a sovrapporsi al lavoro ordinario di psicologi, pedagogisti e educatori, tuttavia le pratiche filosofiche hanno alcune peculiarità che si apprezzano meglio se confrontiamo punto per punto cosa significa “mettersi in ascolto” in una prospettiva psicologica e in una prospettiva filosofica.
Teoria dell’ascolto
Uno psicologo, Carkhuff, ha elaborato una guida all’ascolto agile e completa, utile agli psicologi così come a molte altre persone che lavorano con la relazione di aiuto.
Credo che le sue indicazioni possano essere applicate in modo fecondo alle pratiche filosofiche, tuttavia dal confronto emergono alcune difficoltà che mettono in luce la differenze teoriche e pratiche tra queste pratiche e la psicologia.
1) Sapere perché si ascolta
L’ascolto professionale ha uno scopo preciso. Può essere una finalità diagnostica, terapeutica o didattica, in ogni caso chi ascolta deve concentrarsi su alcuni oggetti e restringere il campo. Al tempo stesso, deve lasciare posto a ciò che si colloca sullo sfondo e che può essere importante anche se non è in primo piano.
Le pratiche filosofiche si concentrano sugli aspetti logico-razionali della vita umana.
Questa scelta, caldeggiata da alcune correnti filosofiche che vedono nel confronto di idee e nella scelta consapevole la dimensione propria dell’essere umano (pensiamo a Popper) di fatto attraversa tutta la filosofia, anche quando questa si occupa della vita quotidiana, cosa che peraltro fa molto spesso, basti ricordare Kierkegaard, Sartre, Abbagnano, Nozick.
Questa scelta non è innocente: come scrive Mascolo in un bel saggio su Heidegger, chi scegliere la razionalità poi vuole ricondurre tutto alla dimensione razionale per esercitare più potere possibile.
Ma lo stesso discorso vale per chi invece basa l’ascolto sulla fantasia, sulla fede o sulla cura delle malattie: ascoltare dà potere. I filosofi vogliono questo potere ma sanno che devono dividerlo con i preti, i cartomanti, i medici, gli educatori, i pranoterapeuti e gli psicologi e oggi è difficile che qualcuno si rivolga al consulente filosofo senza aver mai chiesto o subito l’intervento di una di queste figure.
2) Sospendere il giudizio
La sospensione del giudizio raccomandata a chi ascolta serve a dare modo a chi parla di esprimersi, di formulare un pensiero e di confrontarsi con le proprie idee senza essere interrotto o rimproverato come probabilmente gli accade di solito. L’ascolto professionale perciò si distingue da quello amichevole perché l’interlocutore non vuole essere né un giudice severo né una spalla su cui piangere.
Non dare giudizi affrettati tuttavia non significa non avere reazioni: chi fa psicologia lavora su queste reazioni attraverso l’auto-osservazione e teme che la filosofia le metta da parte, tra parentesi, come si dice.
Ma la sospensione del giudizio della filosofia contemporanea, che si richiama ad Husserl, è molto diversa dallo scetticismo e dallo stoicismo della filosofia antica, così come è diverso dagli ideali di libertà di Voltaire o di Jefferson: mettere da parte i propri giudizi significa fare attenzione a quello che l’altro dice cercando di comprendere a quella che è la sua esperienza per come la racconta e l’ha vissuta.
Alcuni criticano questo atteggiamento in filosofia come in psicologia, temendo che così si finisce per abbrutirsi: la vita sarebbe una serie di “esperienze” su cui nessuno può dire niente, neppure chi le ha vissute.
In realtà il discorso filosofico sulla razionalità dell’esperienza soggettiva è ben più articolato e complesso, tuttavia è plausibile che i centri di ascolto vengano scambiati per luoghi in cui si va a sfogarsi, dopo di che tutto ricomincia come prima. Se è intso così, il colloquio diventa una cura di mantenimento che certo può salvare qualcuno dalla demenza, ma non avvia nessun processo di trasformazione, né individuale né collettivo. In questi casi le pretese delle pratiche filosofiche o psicologiche andrebbero ridimensionate, ridimensionando anche i guadagni.
3) Resistere alle distrazioni
Chi ha una formazione filosofica in cui hanno avuto peso l’esistenzialismo, l’ermeneutica e la psicoanalisi (come molti dei consulenti filosofi italiani) sa che le divagazioni sono preziose e che i sentieri tortuosi spesso portano al cuore di un problema. Tuttavia l’ascolto richiede anche rispetto per la persona che parla: leggere il giornale o addormentarsi quando qualcuno parla, è “svalutante” per gli psicologi, “incongruente” per i filosofi e semplicemente bestiale per il senso comune. Eppure nelle relazioni di aiutoi è più frequente di quanto si vuole ammettere.
4) Saper aspettare
I filosofi sono abituati alle attese, al limite i loro silenzi possono sembrare snervanti per gli altri. La psicologia conosce da tempo la frustrazione che deriva a chi è preso dal suo problema, quando chi lo ascolta non lo asseconda e tace; questo è anzi un atteggiamento che i terapeuti di alcune correnti adottano deliberatamente. Si dice che Bion fosse insuperabile nel “fare l’indiano” e non si sa se questo gli derivasse più dalla formazione kleiniana o dalla sua infanzia anglo-indiana.
Ma i filosofi sanno che cosa dice agli altrui il loro silenzio?
5) Ripetere
L’enfasi sulla ripetizione è stata posta da Rogers: ripetere a voce alta ciò che si è udito, o almeno le ultime parole, dà all’altro la possibilità di riascoltarsi. Prima di lui, walter Benjamin aveva colto l’importanza della “restituzione” come avvio di un dialogo fecondo.
Nella conduzione dei gruppi si è affermato anche un tipo particolare di restituzione che verte non tanto sulle parole di un discorso ma sulla sua carica emotiva: è lo “sprachtgesang”, espressione ripresa da un espediente escogitato da Arnold Schoenberg per legare canto e parola.
Tutti quelli citati sono autori che i filosofi conoscono bene, mentre c’è da temere che gli psicologi abbiano qualche problema con la ripetizione, che richiede una familiarità con la parola scritta e orale che non è nei programmi universitari.
6) Cercare i temi in comune
L’origine rogersiana della teoria dell’ascolto di Carkhuff emerge anche nella rilevanza che attribuisce alla ricerca di temi comuni tra le tante cose che una persona racconta, o tra le tante cose che si dicono in un gruppo. E’ una operazione ermeneutica che ha un precisa matrice filosofica (Schleiermacher, Gadamer, Benjamin, Heidegger, Scholem, e, naturalmente, Jung e Freud). Questa impostazione, strettamente legata ad ambienti religiosi protestanti ed ebraici, potrebbe non essere nelle corde dei filosofi analitici. Questi però possono trovare qualche affinità tra questo procedimento e quello elaborato da Wittgenstein nel commento al “Ramo d’oro” di Frazer: per comprendere il significato di un rituale o di un gesto può essere utile procedere a un confronto tra il fenomeno che ci interessa e altri che, anche se non sono legati da un rapporto causa-effetto, gli somigliano e ce lo possono chiarire.
Tuttavia esistono filosofi che non si sono fatti impressionare dalla svolta linguistica di Wittgenstein e neppure dal discorso sul metodo di Cartesio (che stanno all’origine della psicologia moderna e contemporanea): per loro il mondo è ancora quello di Aristotele, dove ogni cosa, ogni sentimento, ogni pensiero, hanno un posto preciso e una essenza definita. Anche in questo caso però la conoscenza procede principalmente attraverso il confronto: si cercano le somiglianze tra gli atti sessuali per capire che coosa è il sesso, si confrontano le affermazioni sull’uomo per capire che cosa è un essere umano… Questo procedimento, per la sua antichità, è molto vicino al senso comune: non è raro che un gruppo di adolescenti si interroghi sull’essenza dell’amore, come ai tempi di Platone, tuttavia la storia della filosofia non può essere ignorata e i risultati più interessanti si hanno quando questo procedimento non dà risultati, come accadde a Socrate quando cercò di misurare la diagonale del quadrato e quando cercò di definire la saggezza, o come fece Sartre ne tentativo di definire una volta per tutte che cosa è l’uomo. Se il confronto è condotto correttamente, persone che non sanno niente di filosofia possono ripercorrerne le tappe più significative e comprendere che non tutto si può misurare con lo stesso metro, che la saggezza non si conosce, ma si praticaa, che non si sa cosa sia l’uomo perché non è un oggetto.
7) Riflettere
La riflessione è l’attività filosofica per eccellenza, ma nelle pratiche filosofiche, così come in quelle psicologiche, si tratta di aiutare gli altri a riflettere. Si deve girare lo specchio in modo che possa ospitare anche l’immagine dell’altro e occorre fare questo senza fuggire dietro lo specchio; non è facile e, personalmente, non ho trovato molti filosofi che ne siano capaci, ma forse i lettori di Psicolab mi aiuteranno in questa ricerca.