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Comportamento

Ecomuseo: verso una Nuova Museologia

Tutto sta nel trasformare il museo da “salotto delle muse” ad Agorà, luogo pubblico per eccellenza, punto di aggregazione dei cittadini, casa del collettivo.
Questa è la riflessione che Fredi Drugman promuove nei suoi appunti per una lezione; una riflessione che lancia quella concezione di museo ormai obsoleta e arroccata nell’illusione di un presente esteso e immobile, che invece è un divenire, verso un futuro incombente, verso la sfida della postmodernità, a cui anche chi offre il racconto del proprio passato deve sapersi adeguare.
Ed è da questa riflessione che vorrei partire nell’analisi di una museologia “nuova”, che propone, contro l’incalzare ininterrotto di innovazioni e mutamenti dei modi di vivere e degli atteggiamenti sociali, il tentativo di una conservazione della memoria di culture antropologiche in velocissima trasformazione. «Non relitti, ma fondamento della nostra identità culturale» [1]: gli Ecomusei, uno strumento progressivo di conoscenza e autoanalisi, che il grande museologo George Rivière definisce come specchio di una comunità e di un territorio.
Il modello di Ecomuseo viene elaborato negli anni Sessanta in Francia, dove oggi se ne contano più di quattrocento, e si è poi diffuso in tutt’Europa.
Nel nostro paese, invece, risulta ancora un’esperienza limitata e poco valorizzata, salvo casi sporadici, poiché tuttora molto carente è il concetto di museo stesso, per troppo tempo vissuto solo come il punto finale della tutela dei Beni culturali del territorio. Altrove, invece, è presente una concezione più moderna e aperta, secondo la quale il museo è un «oggetto comunicativo completo… e complesso, che usa codici molteplici di varie esperienze del vedere, del gustare, del capire» [2]. A tale concetto è strettamente intrecciato il sorgere e lo svilupparsi degli ecomusei, nati dall’idea che paesaggi antropizzati da studiare e divulgare, esprimano concretamente le culture antropologiche che li hanno prodotti nel corso dei secoli.
In Italia, invece, l’ecomuseo viene relegato in una posizione di secondo piano, oscurato dal giganteggiare delle immense e celebri risorse artistiche (e non solo) che il nostro paese può vantare e considerato, a fronte di questa realtà, forse come un impercettibile bagliore su un passato più rurale e, quindi, di minor interesse.
Ma proprio questo atteggiamento statico e refrattario rischia di chiuderci in quel presente eterno di cui parlavo prima, che guarda con orgogliosa sicurezza solo a ciò che è affermato e certo, diffidando le sfide che la globalizzazione e l’emergere di nuovi ed imprevedibili bisogni ci chiama ad affrontare e a vincere.
Il consumatore (o il turista nel caso specifico) postmoderno, definito da Giampaolo Fabris [3], si accontenta sempre meno di una fruizione di massa, ma ricerca l’isolamento nel contatto concreto e fisico con realtà minori, di vita quotidiana, da cui possa ricavare non solo belle fotografie e filmati mozzafiato, ma anche e soprattutto delle esperienze forti che solchino la memoria, più che i nastri delle videocamere.
Ed è questo il turista/visitatore a cui bisogna considerare di rivolgersi e per cui l’ecomuseo diventa una proposta assai allettante. Se ben concepito, infatti, esso lo pone al centro di un sistema di percezioni, di attività pratiche, di immersioni in un passato che spiega il presente; al centro di un intreccio tra uomo e ambiente in cui emerge il territorio come luogo di vita vissuta, nicchia ecologica dell’uomo a confronto con la sua storia; ciò che è racchiuso, insomma, nel prefisso “Eco”.
L’ecomuseo «va dunque progettato con la consapevolezza che ci si deve appaesare al suo spazio, perché si possa spaesare il visitatore con l’esperienza di “altri mondi”». [4]
Questa acquisizione temporanea dei tratti caratteristici di una cultura che si va a visitare, questo voler scoprire, vivendola, la vera essenza, che si concretizza nel profumo, nel sapore, nel fare del territorio che ci ospita è il bisogno emergente di chi desidera trovare nella peculiarità dei luoghi e degli abitanti di essi un freno all’imperversare di un minaccioso livellamento culturale, una dimostrazione che, oltre a tanti angoscianti non valori della società odierna, si può ancora trovare nelle radici storiche di un popolo, nel suo irrinunciabile rapporto simbiotico con l’ambiente, una realtà pregnante, ricca proprio di quei valori che si teme di perdere, una riconciliazione con la natura ed infine con se stessi.
Il consumatore/turista postmoderno cerca proprio questo; e chi progetta un ecomuseo, o una rete di ecomusei, deve andargli incontro. Perché è toccando con mano la semplicità dell’ingegno necessario un tempo, la manualità, l’inevitabile solidarietà tra le genti richiesta dalle tante difficoltà, che si può, almeno in vacanza, dimenticare l’individualismo cinico da cui siamo sempre più soffocati.
Questo bisogno, crescente ovunque, è maggiormente riscontrabile nelle popolazioni del centro-nord europeo: olandesi, tedeschi, svedesi, inglesi, francesi sono assai più sensibili di noi verso queste realtà minori, ma forse più appaganti.
Probabilmente è necessario rivolgersi maggiormente proprio a questo tipo di target, che già da tempo si muove tendenzialmente su percorsi paralleli rispetto a quelli turistici classici.
Ma in primo luogo è necessario focalizzare l’attenzione sul carattere che l’ecomuseo deve assumere, per comunicare realmente, e non solo utopicamente, tutta la ricchezza che contiene.
Per rispondere ai nuovi bisogni di cui ho parlato prima, occorre assolutamente liberarsi da quella mentalità che concepisce il museo come qualcosa che “congela” in una teca un oggetto del passato. E’ un’idea superata per qualsiasi museo demologico, e a maggior ragione lo è per un ecomuseo, caratterizzato proprio da relazioni con l’ambiente, con le piccole società locali e di quest’ultime con la loro storia. L’ecomuseo è un guscio che svela senza clamore, ma con orgogliosa modestia, elementi del passato che accedono al presente come radici delle identità locali in grado di far camminare verso vie di autonomia e innovazione, «senza però disperdere –per ignoranza, per superficialità, per supponenza- l’accumulo prodotto dalle storie precedenti…, il depositarsi di tessuto costruito sul territorio» [5].
Nel concetto di identità così inteso non rientra il rischio della chiusura nei propri confini, come ostinata difesa delle proprie particolarità; è un’identità che viene fortificata e che quindi genera orgoglio e desiderio di apertura, di dialogo, di confronto, nella prospettiva anche di una crescita.
L’ecomuseo dovrebbe generare, insomma, interesse e piacere sia per chi accoglie, mostrando se stesso attraverso il proprio passato, sia per chi viene accolto. E chi viene accolto deve essere, però, anche coinvolto, per poter davvero godere di quest’essenza che gli viene comunicata.
Mi riferisco alla necessità di porre l’attenzione sull’interattività, che permetta al museo di essere davvero non più statico, ma dinamico, di muoversi e prendere forma tra le mani dei visitatori, intorno a loro, come se questi venissero calati in un passato che riprende vita.
E’ importante non fermarsi alla semplice comunicazione visiva affidandosi all’esposizione, poiché questo pone il visitatore in una condizione di passività e, non trovandosi di fronte alla Primavera di Botticelli, anche di probabile disinteresse. Ciò che rende avvincente l’esperienza ecomuseale non deve essere infatti la logica espositiva tipica dei grandi musei d’arte, ma una logica percettiva, che soddisfi e stimoli allo stesso tempo il «bisogno del visitatore di manipolare, sperimentare, usare l’oggetto ed appropriarsi fisicamente dei suoi nessi, determinismi, possibilità operative [6]», come suggerisce Cirese, nel suo saggio del 1977; un contatto reale e attivo, insomma, che consenta la vera acquisizione nel proprio bagaglio esperienziale di elementi concreti della cultura antropologica conosciuta nell’ecomuseo.
L’ecomuseo ha tra i suoi scopi principali quello educativo, attraverso cui si mira a sensibilizzare, con la conoscenza e l’esperienza, i ragazzi delle scuole ad una cultura che è nata dalla dura convivenza con elementi primordiali quali l’acqua, il fuoco, il freddo, il vento, che per secoli hanno costituito una minaccia ma anche una risorsa per le popolazioni locali.
Forse a causa dell’incapacità di rendere la realtà ecomuseale vincente a livello del turismo nazionale e straniero, la maggior parte degli ecomusei in Italia trova nella didattica l’utenza più copiosa, tanto che spesso le scuole arrivano a coprire il 60% delle presenze annue.
Concentrarsi su questa risorsa è senza dubbio importante per una realtà come l’ecomuseo, che rappresenta una forma di approccio concreto e coinvolgente ad una dimensione storica che i ragazzi possono sentire ancora viva, percependo l’industriosità e l’epica ostinazione di una lotta per la sopravvivenza, totalmente estranea alla vita attuale.

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Sara Bonacchi

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